Usa. Trump, Musk e il futuro della democrazia

di Giuseppe Lai

Il recente contenzioso tra Donald Trump e Elon Musk richiama il passaggio di un discorso pronunciato da Lord Palmerston, storico premier del Regno Unito, ai tempi della Regina Vittoria: “non ci sono amici permanenti, né nemici permanenti, ma solo interessi permanenti”. Riferita ai due personaggi, la prima parte della citazione è più di una metafora: esemplifica plasticamente la precarietà del sodalizio personale tra il tycoon della politica e il tycoon della tecnologia, rivelatosi infausto come del resto più di un osservatore aveva pronosticato. La seconda parte della frase citata attiene invece all’intreccio di interessi politico-imprenditoriali, storicamente presenti negli Stati Uniti (e non solo) che l’asse Trump-Musk ha contestualizzato nella fase istituzionale in corso. Tale contestualizzazione ha dato adito a due tipologie di analisi. Da un lato varie posizioni, in gran parte condivisibili, hanno visto nella fine dell’alleanza la rottura di un equilibrio precario tra capitale privato da un lato, con le sue logiche di mercato e innovazione e potere politico dall’altro, fedele alle promesse elargite in campagna elettorale. Un quadro reso più complesso dall’incontro di due personalità sui generis, un fattore che ha ostacolato una possibile sintesi tra l’iperliberismo del patron di Tesla e l’anima iperpopulista di “the Donald”.
In parallelo a tale lettura analitica, tuttavia, si è affacciata nel dibattito pubblico una seconda narrazione, che prefigura il rischio di deriva oligarchica legato alla politica accentratrice del presidente americano. L’ipotesi di un rischio democratico deriverebbe, secondo i detrattori di Donald Trump, da un indebolimento dei “checks and balances”, il sistema di pesi e contrappesi che ostacola lo sviluppo di posizioni dominanti e garantisce l’equilibrio dei poteri tra gli organi dello Stato. In pratica, nessuna istituzione può agire in piena autonomia. Ad esempio, il presidente può mettere il veto su una legge approvata dal Congresso, il quale, se la ritiene necessaria, può bypassare il veto con una maggioranza qualificata pari a due terzi; i giudici della Corte Suprema federale sono di nomina presidenziale ma il Senato deve approvare le nomine. Quando si passa dalla forma alla sostanza, tuttavia, cambia il quadro della situazione. I repubblicani infatti hanno la maggioranza nei due rami del Congresso e possono assecondare le decisioni del Presidente. Questo agevola il tentativo in corso del presidente Trump di allargare i poteri dell’esecutivo rispetto al legislativo, ma non può di fatto esercitare un controllo assoluto e impedire che altri meccanismi di “peso-contrappeso” entrino in azione in difesa dell’equilibrio istituzionale. Un esempio recente è dato dalle proteste sorte in questi giorni a Los Angeles e in molte altre città statunitensi a seguito degli arresti di presunti immigrati illegali da parte dell’ICE, l’Agenzia Federale per l’immigrazione. Per sedare le rivolte a Los Angeles, Donald Trump ha “federalizzato” la Guardia Nazionale californiana, assumendo il controllo del contingente militare che, per legge, risponde unicamente al Governatore dello Stato in questione. Ciò ha creato un conflitto istituzionale tra prerogative federali e poteri attribuiti ai singoli Stati.
In base alle norme vigenti presidente degli Stati Uniti può assumere il controllo della guardia nazionale di uno Stato in caso di invasione straniera, di ribellione interna oppure quando è necessario garantire l’applicazione di leggi federali ostacolate. In sostanza, Trump ha equiparato le manifestazioni a una ribellione che minaccia l’ordine federale quando, in realtà, si è trattato di proteste contro le politiche presidenziali sull’immigrazione. La pronta reazione del Governatore della California e le proteste anti- Trump sono il segno della vivacità di quei “check and balances” che regolano i rapporti tra istituzioni, preservando l’equilibrio democratico anche di fronte a situazioni politiche difficili, come dimostrano i fatti appena esposti.
Come afferma il giurista Sabino Cassese, tra gli “anticorpi” a tutela della democrazia vi è proprio la natura federale degli Stati Uniti, che consiste in una divisione di poteri tra i 50 Stati, ciascuno con un certo grado di autonomia. In questo contesto, il potere centralizzato della Casa Bianca è mitigato dalla possibilità di azioni decentrate e dalle competenze esclusive degli Stati. Nonostante l’enorme potere di un esecutivo, sottolinea Cassese, le macchine statali sono ormai così sofisticate e regolamentate che non è facile esercitare un controllo assoluto e il presidente potrebbe trovare ostacoli nell’attuazione delle sue politiche. Ciò rende difficile per un singolo leader imprimere un cambiamento drastico agli asset istituzionali in tempi rapidi. Questo ostacolo temporale ricordato da Cassese rimanda ad un altro contrappeso della democrazia: le elezioni. La tempistica delle scadenze elettorali, infatti, non solo crea le condizioni per un potenziale ricambio alla guida delle istituzioni ma costituisce un ostacolo ai tentativi di delegittimazione e di deterioramento delle stesse. I risultati che hanno portato alla vittoria di Donald Trump nel 2024 hanno visto una polarizzazione quasi simmetrica dell’elettorato americano: 77 milioni di voti per Trump e 75 milioni per Kamala Harris. E’ lo specchio di un’America divisa a metà, che potrebbe inaugurare scenari alternativi e imprevedibili per l’attuale amministrazione in occasione delle elezioni di Midterm del 2026.