
di Giuseppe Gagliano –
C’è qualcosa di profondamente simbolico nella notizia che la NASA, l’agenzia che ha portato l’uomo sulla Luna e incarnato per decenni la supremazia tecnologica americana, si appresta a subire il taglio di bilancio più grave della sua storia, pari al 24,3%. Un colpo che non è solo economico: è esistenziale. Perché significa rinunciare a una visione strategica dello spazio in nome della razionalizzazione dei costi e della privatizzazione spinta. Dietro il lessico aziendale si nasconde un vuoto geopolitico.
La proposta avanzata dall’amministrazione Trump per l’anno fiscale 2026 non si limita a ridurre i fondi (da 25 a 18,8 miliardi di dollari), ma sopprime decine di missioni scientifiche, cancella interi dipartimenti (come l’ufficio STEM per la promozione delle discipline tecnico-scientifiche), licenzia il 31% del personale e soprattutto disarma la NASA del suo cuore operativo: i programmi SLS e Orion.
Il programma SLS (Space Launch System) è il razzo più potente mai costruito dagli Stati Uniti. La capsula Orion, la navicella che avrebbe dovuto trasportare astronauti verso la Luna e forse Marte. Insieme costituivano la spina dorsale del programma Artemis, pensato per restituire all’America il primato nello spazio profondo. Ora vengono definiti “troppo costosi e ritardati”, sacrificati sull’altare dell’efficienza e sostituiti in teoria da soluzioni commerciali offerte da SpaceX e Blue Origin.
Il danno non è solo tecnico ma industriale e sociale: il Marshall Space Flight Center in Alabama, epicentro della progettazione, rischia di veder scomparire migliaia di posti di lavoro diretti e un indotto che valeva oltre 5 miliardi di dollari solo nel 2024. Intere filiere, da Aerojet Rocketdyne a Dynetics, rischiano di collassare. L’America taglia così il ramo su cui era seduta.
Trump punta a esternalizzare lo spazio, affidando le missioni abitate e la ricerca all’iniziativa privata. Un modello ibrido, già collaudato con SpaceX per il trasporto in orbita bassa, ma che ora si espande a funzioni strategiche. È una rivoluzione: la NASA non sarà più il motore, ma il cliente. E se il cliente cambia umore, o se l’appaltatore fallisce, salta tutto il programma.
Certo, Elon Musk e Jeff Bezos non mancano di ambizione. Ma i loro vettori, Starship e New Glenn, sono ancora in fase di sviluppo e hanno già registrato fallimenti. Affidarsi esclusivamente a loro per portare esseri umani sulla Luna significa accettare rischi tecnologici elevatissimi e scommettere sull’inaffidabile variabile del mercato.
Nel momento in cui la Cina costruisce la sua stazione spaziale, punta alla Luna e prepara la missione su Marte, e la Russia rilancia la propria presenza orbitale, gli Stati Uniti si ritirano. Non simbolicamente, ma fattualmente. Non si tratta più di scegliere tra pubblico e privato, ma tra sovranità e dipendenza. Il rischio è quello di perdere il controllo sulle tecnologie strategiche, esporre i programmi spaziali a logiche speculative, e rinunciare alla continuità di una visione che per oltre sessant’anni ha guidato l’esplorazione umana.
Cancellare 41 missioni scientifiche, ridurre la formazione STEM, affidare la conquista dello spazio a chi risponde agli azionisti e non ai cittadini: tutto questo va oltre una scelta tecnica. È un segnale ideologico. È lo Stato che si svuota, che rinuncia alla sua funzione progettuale, che abdica al profitto invece di guidarlo. La NASA non è solo un’agenzia: è un simbolo dell’ambizione americana. Smantellarla così equivale a rinunciare a un pezzo di sovranità.
Resta poco tempo per invertire la rotta. Serve una politica spaziale nazionale e sovrana, che non escluda il privato ma lo subordini a un progetto pubblico forte, lungimirante e integrato. Serve investire nella ricerca fondamentale, rilanciare i programmi abitati, proteggere le filiere industriali. Serve, soprattutto, una visione geopolitica dello spazio, che non si pieghi alle logiche dei bilanci trimestrali.
Perché lo spazio, oggi, è potere, influenza, sicurezza. E chi lo abbandona, semplicemente, sparisce.