di Giuseppe Gagliano –
C’era una volta l’America, terra delle opportunità, della libertà e dei debiti colossali. E proprio su quest’ultimo punto, il secondo mandato di Donald Trump rischia di trasformarsi in un thriller economico con un debito pubblico da paura. Nel 2024, gli Stati Uniti hanno raggiunto la modica cifra di 36.000 miliardi di dollari di debito, pagando oltre 1.000 miliardi solo di interessi. Più della spesa militare. Il che, per il paese delle guerre infinite, non è esattamente un dettaglio.
Ma la crepa nella corazza dorata del tycoon sta nella sua promessa elettorale più accattivante: il taglio delle tasse. Nel primo mandato aveva abbassato l’aliquota per le aziende dal 35% al 21%. Ora vuole spingersi fino al 15%. Peccato che per coprire il buco, il Tesoro USA debba piazzare titoli di Stato come se non ci fosse un domani, sperando che qualcuno abbocchi. Peccato che si parli di 5mila miliardi di dollari extra di debito nei prossimi dieci anni. Semplice come una partita a Monopoli: basta trovare chi compra i titoli a tassi sostenibili. Se non ci si riesce, la crepa diventa voragine.
A questo sta lavorando Stephen Miran, economista e stratega dei dazi, uno di quelli che gira con la calcolatrice incorporata nel cervello. La sua ricetta? Un cocktail esplosivo di svalutazione del dollaro, esportazioni aggressive e tassi d’interesse bassi, il tutto condito da un “gentile” invito all’Europa e alla Cina a comprare titoli di Stato americani. Gentile si fa per dire: il piano prevede il classico mix bastone e carota. Se l’Europa e la Cina non vogliono ritrovarsi travolte da dazi punitivi o perdere il prezioso ombrello militare a stelle e strisce, farebbero meglio a mettere mano al portafoglio.
In pratica Trump sta cercando di convincere gli alleati a finanziare il debito americano come un padre che obbliga i figli a pagare il mutuo della villa di famiglia. Secondo Federico Fubini, che ha analizzato nel dettaglio il piano Miran, si tratterebbe di una sorta di ricatto finanziario. Tradotto: l’Europa deve cedere parte delle proprie riserve per coprire i buchi di bilancio di Washington, attraverso una svalutazione del dollaro e rendimenti miseri sui titoli del Tesoro USA.
E poi c’è l’altra faccia della medaglia: il “tecno-capitalismo” di Trump, ovvero il paradiso fiscale delle Big Tech, che grazie a politiche fiscali ultrafavorevoli riescono a pagare in tasse meno di un bar sotto casa. Nel frattempo, l’altra metà di Wall Street, quella affamata di sgravi e agevolazioni, osserva con sospetto le mosse del presidente, consapevole che le sue visioni protezionistiche non coincidono sempre con i desideri degli oligarchi della finanza.
E mentre i mercati tremano per l’incertezza dei dazi e l’inflazione galoppa, la Fed si tiene stretta il timone dei tassi d’interesse. Gli investitori, intanto, cercano rifugio nei lingotti d’oro, bene rifugio per eccellenza, mentre i paesi non occidentali, i famosi BRICS, iniziano a sfilarsi dall’egemonia del dollaro. Trump reggerà il colpo o finirà sotto il peso del debito che lui stesso ha contribuito ad aggravare? Il prossimo capitolo della saga economica americana è ancora tutto da scrivere.