Venezuela. Maduro e quel piccolo sporco miracolo economico

di Francesco Giappichini –

Nel 2022 il Venezuela ha vissuto un piccolo boom. E si può parlare di un vero miracolo economico, perché il Paese è quello che cresce di più in America latina, dopo sette anni in cui la sua economia ha sofferto la contrazione produttiva più grave della storia. In Sudamerica fa meglio solo la Guyana, che però è una nazione anglofona. Il PIL (prodotto interno lordo) di Caracas è calato senza sosta, tra il 2014 e il 2020: secondo l’istituto Datanálisis, sino al 75% del PIL. E solo nel 2021 si è notata un’inversione di rotta, con un + 0,5 per cento. Secondo l’Economic commission for Latin America (Ecla), organismo delle Nazioni unite, nel ’22 la ricchezza è cresciuta sino al 12%, (i dati definitivi non sono disponibili). Ancor più ottimistiche, ma non affidabili, le stime del Banco central de Venezuela, che per il ’22 attestano un mirabolante +18,7%, (dopo anni in cui il Governo aveva proibito, evviva la trasparenza, la diffusione del dato). La fase espansiva dovrebbe proseguire anche nel 2023, sino a sfiorare un rotondo + 5 per cento.
Va da sé che i network dell’informazione globale suggeriscono, per questa ripresa, un’interpretazione di basso profilo. E per evitare ogni imbarazzo, si astengono dai titoli a effetto: il Governo di Caracas continua a esser gravato da sanzioni, gli Stati uniti riaffermano la sua illegittimità, e secondo molti osservatori, il presidente Nicolás Maduro rappresenta il prototipo dell’autocrate, che guida una società polarizzata. Chiediamoci, però, quanto possa protrarsi questo scenario di «mini-boom», che poggia sull’incremento delle attività petrolifere. Secondo i dati ufficiali, nel ’22 la produzione di greggio ha superato del 20% quella del 2021; ma a giudizio di Daniel Cardenas, docente di Macroeconomia all’Universidad central de Venezuela (Ucv), si sarebbe addirittura passati dai 300mila barili del ’21, ai 700mila del ’22. Ebbene, un’autorevole previsione la offre l’economista Ramón Pineda, che opera nella Divisione di Sviluppo economico della Comisión económica para América latina y el Caribe (Cepal). A suo giudizio, il producto interno bruto (Pib) venezuelano potrà continuare a crescere (del 5% nel ’23) nonostante il previsto calo del prezzo degli idrocarburi: Caracas conterà sull’aumento della produzione di petrolio e combustibili, e sul «ritiro o ammorbidimento di alcune sanzioni (sanzioni economiche)». Proventi dell’attività estrattiva, che non solo rappresentano una boccata di ossigeno per le casse statali, ma sono essenziali per finanziare le importazioni (sia di beni di consumo, sia di materie prime). Specie in un’economia che è sottoposta a sanzioni, dipendente storicamente dal settore petrolifero, vittima sacrificale della desertificación industriale e manifatturiera, e ingessata dalla burocrazia bolivariana.
Senza considerare l’inflazione, che secondo l’Observatorio venezolano de finanzas (Ovf) ha raggiunto un tasso annuale del 195,5% (dato di novembre). Ed è grazie a questo circolo virtuoso tra produzione petrolifera e import, se nel ’22 agroindustria e settore farmaceutico hanno ottenuto risultati soddisfacenti. Queste previsioni positive (così come il diffuso clima di fiducia che le istituzioni internazionali condividono con l’opinione pubblica), si fondano anche sulla speranza concreta che per Caracas possa aver fine l’isolamento politico. E l’autorizzazione di Washington, che consente alla compagnia Chevron di riprendere produzione ed export di greggio dell’Orinoco, va in questa direzione.