Venezuela. Per uscire dalla crisi il governo vuole ripartire dal petrolio

di Paolo Menchi

In Venezuela nel corso del 2020 l’inflazione ha quasi toccato quota 10.000%, il denaro in contante è praticamente assente, spesso solo per comprare un biglietto dell’autobus bisogna fare una lunga fila in banca per ritirare 500mila bolivares, corrispondenti a 25 centesimi di dollaro, perché i bancomat sono vuoti. L’apertura all’uso del dollaro ha leggermente migliorato le cose ma, in ogni caso è sempre difficile pagare con una banconota anche di soli 10 dollari e riuscire ad avere il resto, visto che non si trovano facilmente i pezzi piccoli.
La crisi del paese che ha le maggiori riserve di petrolio del mondo pare senza fine e probabilmente l’unico modo per ripartire sarebbe quello di rimettere in moto l’industria petrolifera, ma è una cosa tutt’altro che facile per motivi essenzialmente economici.
Alla fine del 1994 la compagnia statale petrolifera PDVSA era la seconda al mondo, estraeva 3 milioni di barili al giorno, era in competizione per il primato con la saudita Aramco ed era decisamente più importante di colossi quali la Exxon Mobil e la BP. Si calcola che nel 2020 siano stati estratti solo 400mila barili quotidiani scendendo ai livelli degli anni 30.
Adesso della PDVSA, dopo la mancata manutenzione e i mancati investimenti per riammodernare gli impianti, restano solo vecchie infrastrutture arrugginite, molti dipendenti hanno lasciato l’azienda che pagava stipendi molto bassi e in molti casi i tecnici più preparati sono emigrati all’estero.
Alla base del tracollo c’è la gestione politica della società petrolifera statale iniziata nel 2003, che ha smesso di essere un’industria che cercava l’efficienza divenendo un semplice strumento del governo.
Inoltre la legge sugli idrocarburi del 2008 ha dato il colpo di grazia espropriando quote detenute da società petrolifere internazionali e obbligandone altre a cessare la produzione in Venezuela.
In un paese dove il 95% delle entrate proviene dall’esportazione di petrolio si può capire perché la profonda crisi del settore abbia travolto tutta la società.
Il ministro del petrolio Tarek El Aissami e il capo di stato Nicolas Maduro hanno promesso di aumentare notevolmente la produzione di petrolio fin dall’anno in corso portandola a 1,5 milioni di barili giornalieri per poi continuare nei prossimi anni fino a ritornare ai livelli dei tempi migliori.
Secondo uno studio di una Università americana per raggiungere il livello di 2,5/3 milioni di barili ci vorrebbe un decennio, ma soprattutto sarebbe necessario un investimento annuale di 10 miliardi di dollari che allo stato attuale sembra fantascienza, a meno che non si apra al capitale straniero.
Attualmente chi vuole investire nel petrolio venezuelano può farlo solo come socio di minoranza della PDVSA, cosa che rende meno attraente l’impegno economico anche perché è sempre presente il rischio paese legato a possibili future nazionalizzazioni.
Proprio una riforma che riapra al capitale straniero senza condizioni potrebbe essere la strada per far confluire investimenti provenienti da paesi amici come la Cina, la Russia e l’Iran mentre per quanto riguarda gli americani finché non verrà in qualche modo rimosso o indebolito l’embargo non ci sono possibilità concrete che si realizzi un loro nuovo coinvolgimento. Da qualsiasi paese provenga, solo una forte iniezione di capitali stranieri potrebbe far ripartire l’industria petrolifera e di conseguenza salvare il paese da una caduta che sta peggiorando progressivamente di anno in anno.