Venezuela. Trump, ‘non attaccheremo’. Ma Maduro corre ai ripari

di Giuseppe Gagliano –

Nel corso di un’intervista per la Cbs il presidente Usa Donald Trump ha respinto l’ipotesi di un attacco diretto al Venezuela, tuttavia ha affermato che “i giorni di Maduro sono contati”. Gli Stati Uniti hanno infatti rafforzato la presenza navale nei Caraibi e avvicinano la portaerei Gerald Ford. In risposta Nicolás Maduro ha chiesto sostegno a Mosca, Pechino e Teheran per ammodernare radar, caccia e difese aeree con lo scopo di costruire una cintura di deterrenza per alzare il costo di qualsiasi iniziativa statunitense nella regione. La lettera a Putin, le richieste di droni e contromisure elettroniche all’Iran, l’appello a Xi per accelerare forniture di sensori raccontano un Paese che cerca tecnologie critiche per colmare anni di manutenzione mancata e arsenali logorati.
L’insieme di mezzi richiesti, cioè ripristino dei Sukhoi, missili antiaerei, droni a lungo raggio, apparati di disturbo dei segnali, delinea una strategia di negazione d’area su misura per un attore medio: ridurre la libertà d’azione di navi, aerei e droni avversari lungo la costa e sopra le infrastrutture energetiche. Non è superiorità, è costo politico. Se Caracas alza la soglia del rischio con sistemi portatili e sciami di droni, ogni operazione statunitense diventa più esposta, ogni errore più visibile. La partita si gioca anche nella sfera cognitiva: accuse di colpire “narcos” contro rivendicazioni di sovranità, rapporti delle Nazioni Unite che parlano di “uccisioni extragiudiziali”, comunicati di Washington che invocano la lotta al traffico. Chi vince il racconto, guadagna margine diplomatico.
La Russia resta il partner politico più solido: ratifica di un trattato globale con Caracas, continuità su energia, miniere, sicurezza. Ma lo sforzo bellico sul fronte europeo limita capacità e tempi di consegna; più probabili interventi di riparazione, parti di ricambio, nuclei di istruttori e qualche lotto di missili a bassa firma. La Cina, prudente sulle forniture militari, privilegia sensori, telecomunicazioni, manutenzione e credito: aiuta a “vedere” più lontano senza farsi trascinare in crisi transatlantiche. L’Iran, abituato a navigare le sanzioni, può colmare rapidamente i vuoti con droni e disturbo elettronico: strumenti poco costosi, adattabili, efficaci nella saturazione tattica.
La proiezione statunitense con navi di prima linea, sottomarino d’attacco e velivoli da combattimento dislocati nelle basi dell’area è anzitutto un segnale ai vicini: dagli alleati dei Caraibi fino alla Colombia e al Suriname, passando per la contesa con la Guyana sull’Essequibo che resta il punto di frizione più sensibile. La concentrazione navale risponde a più obiettivi: repressione dei traffici, pressione politica su Caracas, dimostrazione di prontezza verso Mosca e Teheran. Ma spostare anche una quota modesta di risorse verso il quadrante caraibico è, per il Cremlino, un guadagno indiretto: frammentare l’attenzione americana quando l’Europa chiede focus sull’asse euroasiatico.
La capacità di Caracas di reggere allo scontro dipende dall’energia. Le partecipazioni russe nelle miscele pesanti venezuelane garantiscono a Mosca un interesse industriale, ma gli investimenti sono prudenti: gestione dell’esistente, poca espansione. Se la crisi spinge a nuove sanzioni o a interruzioni logistiche, mercato del greggio e filiere di raffinazione nel Golfo del Messico dovranno assorbire nuove turbolenze. In parallelo, droni e disturbo elettronico rafforzano la protezione di raffinerie, terminali e oleodotti, riducendo l’azzardo di sabotaggi e attacchi a bassa intensità.
Nel breve periodo il più probabile è un contenimento armato: pattugliamenti intensi, sorvoli, qualche intercettazione, retorica accesa e canali tecnici aperti per evitare il contatto cinetico. Resta il rischio di crisi breve: un episodio in mare o un errore di fuoco può innescare una finestra di 72 ore ad alta tensione, risolta con de-escalation mediata. Lo scenario più pericoloso è lo scivolamento lungo: piccoli incidenti, ritorsioni economiche, sanzioni e contro-sanzioni che, sommate, creano una nuova normalità di ostilità permanente con costi crescenti per i civili e per i mercati.
Gli Stati Uniti mostrano bandiera per riaffermare dominio marittimo e legalità della loro campagna antidroga; Caracas brandisce la sovranità e cerca scudi tecnologici per negoziare da posizione meno debole. Ma la forza, senza un ponte politico, genera solo logoramento. Se il dossier resta prigioniero di sanzioni, incriminazioni e gesti dimostrativi, vincerà chi resiste più a lungo, non chi ha ragione. E nel mare dei Caraibi, come altrove, la resistenza costa soprattutto ai popoli.