Yemen. Bombardamento Usa colpisce una prigione di migranti: 68 morti

di Giuseppe Gagliano

Nella guerra dimenticata dello Yemen si consuma lontano dai riflettori un altro massacro. Oggi un raid aereo statunitense ha colpito una prigione nel governatorato di Sanaa provocando la morte di almeno 68 migranti africani e il ferimento di altri 47.
Secondo fonti locali e internazionali, la struttura ospitava circa cento persone, provenienti in gran parte dall’Etiopia e da altri Paesi del Corno d’Africa. I migranti erano detenuti illegalmente, al centro di traffici umani gestiti dagli stessi ribelli Houthi che lucrano su di loro, facendoli transitare clandestinamente verso l’Arabia Saudita.
Ma le responsabilità del conflitto non si esauriscono in questa oscura economia di guerra. Gli Stati Uniti, impegnati in una vasta campagna di bombardamenti contro obiettivi Houthi, hanno confermato l’intensificazione delle operazioni, pur evitando di rilasciare dettagli specifici.
Il Comando Centrale americano (CENTCOM) ha ribadito la linea della “opacità operativa”, giustificandola con esigenze di sicurezza, ma l’imbarazzo cresce: l’attacco è avvenuto poche ore dopo che il segretario alla Difesa, Pete Hegseth, era finito sotto accusa per aver divulgato informazioni sensibili tramite l’app di messaggistica Signal.
Non è la prima volta che il teatro yemenita si trasforma in un campo di battaglia senza regole. Già nel 2022 un raid della coalizione guidata dall’Arabia Saudita aveva colpito la medesima struttura, causando 66 morti e 113 feriti. Allora, come oggi, la giustificazione era la presenza di droni militari fabbricati dagli Houthi. Tuttavia, un’inchiesta delle Nazioni Unite aveva certificato che si trattava di un centro di detenzione per migranti.
Oggi la storia si ripete, senza che vi sia chiarezza sui veri obiettivi dell’attacco.
La tragedia di oggi getta una luce cruda su una realtà spesso ignorata: lo Yemen, già devastato da dieci anni di conflitto, è anche il crocevia di rotte migratorie disperate.
Decine di migliaia di etiopi e somali, ogni anno, rischiano il deserto, i trafficanti e le guerre per raggiungere l’Arabia Saudita in cerca di lavoro. Ma il loro destino si infrange sempre più spesso contro la brutalità dei governi e delle milizie locali.
Un rapporto delle Nazioni Unite del 2022 aveva già denunciato bombardamenti sistematici da parte della Guardia di frontiera saudita, accusata di aver ucciso circa 430 migranti e ferito altri 650 con artiglieria e armi leggere. Riyad ha sempre negato ogni responsabilità.
Ora gli Stati Uniti sembrano essere caduti nella stessa spirale: azioni militari che, nel dichiarato intento di colpire obiettivi “terroristici”, finiscono invece per stritolare le vittime più vulnerabili di un conflitto che, sotto l’etichetta della sicurezza regionale, nasconde logiche ben più ciniche.
Il raid sulla prigione dei migranti si inserisce in una campagna più ampia: il 18 aprile un altro bombardamento americano sul porto di Ras Isa, hub fondamentale per il rifornimento di carburante, aveva causato almeno 74 morti e 171 feriti. L’obiettivo dichiarato era colpire le finanze degli Houthi, privandoli delle entrate generate dal commercio di carburanti.
Ma l’effetto collaterale, devastazione delle infrastrutture civili, aggravamento della crisi umanitaria, resta come sempre sotto traccia nelle narrazioni ufficiali.
Nel frattempo gli Houthi intensificano il controllo dell’informazione. Il 26 aprile hanno ordinato la consegna obbligatoria dei terminali Starlink, minacciando arresti contro chiunque continuasse a utilizzarli. Una misura che testimonia la crescente preoccupazione per la possibilità che le tecnologie satellitari sfuggano al monopolio dei poteri locali, come già avvenuto in Ucraina e Iran.
Dietro l’intensificarsi delle operazioni militari in Yemen si intravede un quadro geopolitico più ampio. La Casa Bianca di Donald Trump ha aumentato la pressione sull’Iran — principale sostenitore degli Houthi — per costringerlo ad accettare un nuovo accordo sul nucleare.
In questo contesto, lo Yemen diventa ancora una volta il teatro periferico di uno scontro globale, dove le vite dei migranti africani valgono meno di nulla e dove ogni errore, ogni “effetto collaterale”, rischia di affondare ancora più in profondità una regione già allo stremo.
La guerra nello Yemen, ignorata dai grandi media, continua così a generare stragi silenziose. E, nel gioco sporco della geopolitica, nessuno sembra avere il coraggio di alzare la voce per i più deboli.