Afghanistan. E’ il momento delle scelte

di di Maurizio Delli Santi *

I rischi di una politica ancora attendista possono lasciare la popolazione afghana in balia della deriva oscurantista e di una replica amplificata del caos libico. Rispetto al problema dei diritti, si dovrà chiamare il governo talebano a sottoscrivere i principali strumenti di diritto internazionale. Ma si potrà parlare anche con il loro stesso linguaggio, quello della cultura pashtun e del deobandismo, richiamando l’editto di Ciro il grande e la Carta di Medina, sottoscritta dallo stesso Maometto all’epoca dell’egìra, documenti universali che già nell’antichità vincolavano le popolazioni asiatiche e musulmane al rispetto della dignità umana.
In definitiva, Nazioni Unite, G20 allargato, la stessa Ue devono accelerare i tempi e ricorrere subito ad un tavolo di confronto, magari anche con una convocazione di una Conferenza straordinaria estesa alla stessa rappresentanza del governo dei talebani, affinché questi si rendano conto del sentire comune della comunità internazionale sul bisogno inderogabile di affermare la tutela dei diritti, in particolare delle donne.

Bisogna dare atto all’Alto rappresentante della politica estera e della sicurezza dell’Unione Europea, Joseph Borrell, di avere saputo gestire con efficacia l’ultima riunione dei ministri degli esteri svoltasi in Slovenia, riuscendo con sollecitudine a dettare la linea sulla questione afghana. Per l’Unione europea, dunque, non si ammette un “riconoscimento” tout court del Governo che i talebani hanno costituito sotto la Guida spirituale di Haibatullah Akhundzada, ma se ne potrà discutere alla verifica di cinque condizioni: 1) non diventare una base del terrorismo; 2) assicurare il rispetto dei diritti delle donne; 3) definire un governo inclusivo; 4) far accedere gli aiuti umanitari; 5) consentire l’espatrio a stranieri e afghani a rischio. Borrell ha anche annunciato la disponibilità ad attivare una sede diplomatica del Servizio per l’azione esterna dell’UE, che dovrà gestire in particolare i corridoi umanitari diretti nei paesi limitrofi ma anche in Europa. Una decisione quest’ultima lungimirante, che certamente consente all’ Occidente di essere presente a Kabul, rinunciando al ripiegamento delle ambasciate sinora attuato da diversi Stati europei, fra cui l’Italia (anche per motivi di sicurezza, ma non solo), mentre invece rimangono presenti le rappresentanze diplomatiche di Stati come Russia, Cina e Turchia.
C’è comunque ancora molto da fare in termini di azione diplomatica e di politica internazionale, ed è evidente che le varie componenti della comunità internazionale stanno ancora studiando le rispettive intenzioni e non sembrano ancora voler scendere direttamente in campo per dichiarare i loro propositi e, soprattutto, chiarire in concreto la questione del nuovo assetto dell’Afghanistan. È vero, ci sono importanti scadenze ad ottobre, fra cui la convocazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e il vertice del G20, che si sta cercando di allargare anche ad attori esterni, come il Pakistan, il Qatar, l’Iran, la Turchia e ad altri paesi arabi, nonché alle repubbliche asiatiche ex sovietiche confinanti, che sono state già interessate da un programma di aiuti europei per sostenere i primi flussi dei rifugiati afghani.
E tuttavia ogni ulteriore attesa per un’iniziativa concreta della comunità internazionale comporta rischi gravissimi per l’aggravarsi della deriva autoritaria e oscurantista. Eppure quanto accaduto da poco dovrebbe già rappresentare un monito per le conseguenze irreparabili della politica attendista sinora seguita. Lo si è visto subito dopo l’annuncio del ritiro americano, che a dire il vero – contrariamente alle tesi del diffuso antiamericanismo – era stato ampiamente preavvisato. Ebbene, quando si è saputo dell’intesa degli USA con i rappresentanti talebani, gli altri Stati avrebbero avuto tutte le possibilità per intervenire con tempestività e non lasciarsi sopraffare dagli eventi, evitando che il governo in carica si desse alla fuga e ponendo subito le basi per avviare un negoziato con i talebani volto a porre condizioni inderogabili che tutelassero con immediatezza le popolazioni, le varie rappresentanze etniche e la condizione delle donne in particolare.
Si è lasciato invece che la situazione precipitasse, che i talebani, per una naturale autodifesa, conquistassero il controllo di Kabul, e, dopo l’attacco dell’Isis-K a Kabul, si precipitassero a reprimere con efficacia le residue sacche di resistenza del Panjshir. Nell’assenza di qualunque auspicato tavolo di confronto, ad esempio con un delegato autorevole designato dalle Nazioni Unite, dal G20 o dall’UE, i talebani si sono affidati ancora una volta al sostegno del Qatar e alla missione esplorativa dell’emissario del Pakistan, il capo dell’ISI – i servizi segreti pakistani – Faiz Hameed. È inutile perciò che si indugi nelle litanie a cose fatte, perché c’era da aspettarselo che i nuovi padroni di Kabul, osteggiati dall’isolamento internazionale, attaccati dall’Isis-K e dai mujiaddin del Panjshir, varassero un gabinetto di guerra, un governo forte e autorevole di fronte alla loro comunità, chiamando in causa leader certamente discutibili, colpiti dalle misure antiterrorismo delle Nazioni Unite e/o degli Stati Uniti e dell’UE, ma che nel loro contesto rappresentano comandanti militari affidabili e protagonisti attivi del movimento. D’altro canto, erano stati già gli americani a richiedere con insistenza al Pakistan di liberare dalle carceri il Mullah Abdul Ghani Baradar perché lo ritenevano un interlocutore autorevole e affidabile per negoziare gli ormai famosi accordi di Doha sul ritiro, come di fatto è accaduto: era già noto che il recluso Baradar, che tra l’altro è indicato come esponente di un’ala moderata, era ricercato anche nelle liste internazionali dei terroristi. Non ci si deve meravigliare quindi sull’attuale assetto di quello che gli stessi talebani affermano essere un “governo di emergenza”, dichiarandosi anche aperti a riconfigurarlo in termini più inclusivi. Anzi, tutto sommato va colta con favore la scelta della Guida spirituale Haibatullah Akhunzada di assegnare la carica di primo ministro al mullah Hassan Akhund, che negli anni ’90 aveva già ricoperto questa carica e che è una figura non esposta alle attuali diatribe interne, mentre l’incarico di vicepremier è andato a Baraddar, che rimane una figura di spicco. Infatti, in secondo piano è stato posta l’ala più estremista e militarizzata di Serajuddin Haqqani, il leader dell’omonima rete ritenuta più vicina ad Al Qaeda e all’ideologia jihadista, addirittura fino a temerne una possibile tendenza filo-Isis. Serajiuddin è molto autorevole e ai suoi Haqqani si deve la conquista di Kabul e il successo dell’avanzata per il controllo dei principali distretti dell’Afghanistan. Aveva quindi tutta la forza per richiedere per i suoi seguaci la metà della rappresentanza negli incarichi di governo e si è dovuto accontentare di un quarto, anche se è riuscito a strappare per sé la carica di Ministro dell’Interno, una carica importante, ma allo stato priva di una forza di polizia già costituita. Ai suoi adepti sono andati in ministeri per i rifugiati, l’istruzione universitaria e le telecomunicazioni, mentre ad un suo alleato del sud-est, Latif Mansur, è stato attribuito il ministero per l’acqua e l’energia.
Il ministero della difesa è andato invece al Mullah Yakub, il figlio del fondatore del movimento Mullah Omar, mentre l’incarico di capo di stato maggiore è stato affidato al leader della componente tagika del nord-est Qari Fasihuddin, l’unica figura che è rimasta in grado di mantenere i rapporti con l’Iran. Il premier iraniano Raisy non ha esitato ad esternare la sua contrarietà sulla composizione del governo afghano, in cui avrebbe voluto una maggiore rappresentanza degli alleati tagiki e della minoranza sciita degli hazara, e probabilmente spingeva per la designazione negli incarichi della difesa di Ibrahim Sadar, un partner ritenuto più affidabile per i trascorsi rapporti con i Guardiani della rivoluzione. Ma il malcontento serpeggia anche tra altre componenti, soprattutto i talebani dell’est, che si ritrovano senza rappresentanti al governo, anche se ciò è dovuto piuttosto alla loro frammentazione.
In ogni caso, sia per le aspettative delle varie comunità pashtun, delle popolazioni delle 34 province suddivise in ben 398 distretti, che contano complessivamente 38 milioni di abitanti, nonché per le proteste dell’Iran, è bene sottolineare che i talebani hanno dichiarato che nel governo rimangono ancora da assegnare diversi incarichi e che è loro intendimento estenderne il “carattere inclusivo”. Ed hanno pure ricordato che l’esecutivo sarà in ogni caso affiancato da un Consiglio Supremo guidato dalla Guida spirituale Haibatullah Akundzada.
Comunque sia, il governo afghano è costituito, ha il controllo del territorio, e si è dichiarato intenzionato non a condurre un nuovo jihad ma a colloquiare con la comunità degli Stati. È evidente che il nuovo esecutivo ha bisogno di sostegno economico e supporto organizzativo a tutto campo, non dimenticando l’emergenza della pandemia che va affrontata con una campagna di vaccinazione più estesa. E rimangono purtroppo gravissimi i problemi della tutela dei diritti delle donne e del rischio di una pressione migratoria che è solo agli esordi, e che sarà difficile contenere con i soli aiuti diretti allo stesso Afghanistan e ai paesi limitrofi destinati ad una prima accoglienza.
Allora è bene chiarire subito quali devono essere le iniziative da intraprendere. Primo: aiutare certamente la popolazione per tramite delle Nazioni Unite, la CRI e le Ong riconosciute. Secondo: sostenere finanziariamente il governo alle sole condizioni di accettare le altre rappresentanze e di tutelare il sistema dei diritti. E non v’ è dubbio che, specie nell’ottica della cultura occidentale, è centrale il problema dei diritti, sui quali il percorso da compiere è comunque ben definibile, basta intraprenderlo prima che sia troppo tardi.
Se i Mullah di Kabul chiedono “riconoscibilità” e allora è bene vincolarla tassativamente a precise garanzie sulla tutela dei diritti, e ciò è fattibile esclusivamente costringendoli, senza mezzi termini, a sottoscrivere i principali strumenti del diritto internazionale che li garantiscono: a cominciare dalla Carta delle Nazioni Unite, per arrivare alla Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo e ai Patti sui diritti civili e politici del 1966, e quindi alle Convenzioni di Ginevra, e ai protocolli aggiuntivi, sulla protezione della popolazione civile anche in situazione di conflitto armato non internazionale. Ma si potrà pensare anche alla sottoscrizione di un agreement ad hoc che preveda la costituzione di una Commissione internazionale per l’accertamento delle discriminazioni basate sulla religione, sulla razza e sul sesso: se si vogliono tutelare le donne dalle persecuzioni allora bisogna agire per fatti concludenti, senza esitazioni. E, per ultimo, se si vuole essere ancora più stringenti, va pensato anche alla istituzione di un ufficio permanente della Corte penale internazionale, con un mandato esteso alla persecuzione femminile.
Se poi si vuole parlare anche con il loro stesso linguaggio, quello della retrotopia della cultura pashtun e del deobandismo cui i talebani orgogliosamente intendono rifarsi, allora si dovrà loro richiamare anche l’editto di Ciro il grande e la Carta di Medina, sottoscritta dallo stesso Maometto all’epoca dell’egìra, documenti universali che dall’antichità già vincolavano le popolazioni asiatiche e musulmane al rispetto della dignità umana.
In definitiva, Nazioni Unite, G20 allargato, la stessa Ue devono accelerare i tempi e ricorrere subito ad un tavolo di confronto, magari anche con una convocazione di una Conferenza straordinaria estesa alla stessa rappresentanza del governo dei talebani, affinché questi si rendano conto finalmente del sentire comune della comunità internazionale sul bisogno inderogabile di affermare la tutela dei diritti, in particolare delle donne.
Occorre perciò procedere con tempestività, mettendo da parte ogni ipocrita e irresponsabile attendismo. Non avrebbe senso infatti l’ennesimo lamento della comunità internazionale, di fronte agli esiti di uno scenario che è alle porte se il nuovo governo afghano viene abbandonato o condannato all’isolamento. I talebani, privi di sostegno della comunità internazionale, mireranno a consolidare il controllo politico e militare del Paese, anche attraverso una alleanza con Al Qaeda, anche per contrastare l’Isis-k e le altre fazioni avverse. Altrimenti o successivamente si scateneranno nuovi conflitti per procura, oppure un “nuovo grande gioco” delle grandi e medie potenze regionali che hanno già dimostrato di avere cospicui interessi sul quadrante afghano, come nel caso del Pakistan, dell’India che con Islamabad ha conflittualità storiche, e di Turchia, Cina e Russia, delle contigue repubbliche asiatiche ex sovietiche, di Iran e dei vari Paesi arabi, che non si limiteranno a stare a guardare. C’è dunque il rischio, da una parte, di uno scenario con un governo autocrate e oscurantista, che, ancorché isolato dalla comunità internazionale, proprio per questo raccoglierà maggiori consensi interni coagulando la popolazione sul tema dell’ostilità dell’occidente, sopravviverà con gli aiuti di alcune potenze anti-occidentali e potrà alimentare le basi del nuovo terrorismo se non estendere anche la minaccia con loro infiltrati in occidente. Dall’altra parte, potrà esserci uno scenario rappresentato dalla replica amplificata del caos libico, con un territorio frammentato sotto la minaccia dei droni e il controllo di diversi attori: dai contractors russi ai militari turchi e ad altre forze straniere, dagli stessi compositi gruppi pashtun dei talebani, tra cui i più organizzati e aggressivi Haqqani, le altre milizie afghane, incluse quelle sciite, e gli 11 gruppi terroristi censiti in Afghanistan, a cominciare dall’Isis-K e da Al Qaeda che incrementeranno la carica di violenza per la leadership del jihad globale, cui concorreranno i gruppi terroristi e separatisti di tutta l’area regionale.
I 38 milioni di afghani saranno costretti a sopravvivere nei vari distretti controllati dalle parti in lotta, con il rischio di soccombere sotto i droni armati e gli attacchi terroristici, nella indigenza e sotto il giogo di un regime oscurantista, per cui sarà inevitabile la scelta di rifugiarsi in un’Europa che, diciamolo chiaramente, è fortemente ostile all’accoglienza di migranti e rifugiati.
Un dialogo tempestivo delle Nazioni Unite, del G20 allargato, dell’UE, e in genere dell’Occidente, e una eventuale “riconoscibilità” del nuovo governo con i talebani, certo a condizioni tutte da verificare, sono iniziative che vanno affrontate subito, senza ipocrisie. Non dimentichiamo che il percorso di “riconoscimento” fatto verso gruppi come l’IRA, l’OLP, e per ultimo le FARC, ha consentito di farli regredire dalle loro matrici terroriste e criminali, riuscendo a canalizzarli in rappresentanze politiche più moderate.
Se si vuole evitare davvero la resa definitiva dell’Occidente e del suo modello di civiltà, il caos e la ripresa del terrorismo, se si vogliono tutelare – in concreto e subito – la popolazione afghana e le donne in particolare, la strada è tracciata.