Ai confini del mondo: geografia mitica e scoperte reali nella visione greca del mondo antico

di Riccardo Renzi e Diego Borghi

Alle origini dell’Ellade: storia e identità della Grecia antica.
Quando oggi diciamo “Grecia”, evochiamo un’idea antica e insieme attualissima: il mondo della filosofia e della democrazia, delle Olimpiadi e dei miti, della bellezza scultorea e dei paesaggi mediterranei. Ma il nome stesso di questo paese – “Grecia” – è, in realtà, un’espressione che non appartenne mai ai greci. Per loro, allora come oggi, la patria era Ἑλλάς (Hellas) nell’antichità, Ελλάδα (Elláda) oggi. Il termine “Grecia”, che usiamo in italiano e in molte lingue occidentali, è un’espressione latina: Graecia, derivata da Graikoi, un antico etnonimo che indicava una popolazione della Beozia.
Nella genesi dei nomi si cela una parte significativa della storia identitaria di un popolo. “Hellas”, originariamente, non indicava tutta la Grecia ma solo una regione limitata della Ftia in Tessaglia, patria dei Mirmidoni e del leggendario Achille, figlio del re Peleo e della ninfa Teti. Con il tempo, e già a partire dall’epoca omerica, il termine si estese a tutta la penisola e al mondo dei popoli di lingua greca. L’origine di questo nome, tuttavia, è ancora oggetto di dibattito. La versione più classica lo fa derivare da Elleno, mitico re della Ftia e figlio di Deucalione e Pirra, sopravvissuti al diluvio che aveva spazzato via il genere umano, secondo un mito che ha molte somiglianze con quello biblico di Noè.
Altre etimologie più speculative vedono nel termine radici legate alla natura, come ell- (“montagna”), sel- (“illuminare”), o addirittura sal- (“pregare”), collegandolo a significati arcaici e religiosi. Un’ipotesi più suggestiva lega il nome Hellas a un toponimo preciso: una città situata lungo il fiume Spercheo, nel sud della Tessaglia, chiamata appunto Hellas, forse dal significato “torrente di montagna” (ellas roe).
La prima attestazione scritta dell’identificazione culturale e politica degli “Elleni” con l’intero popolo greco è in un’iscrizione dedicata a Eracle da Echembroto d’Arcadia, vincitore ai giochi Anfizionici, datata alla 48ª Olimpiade (584 a.C.). L’epigramma – riportato da Pausania – è significativo:
“Ad Eracle tebano, Echembroto d’Arcadia dedicò questa offerta in cambio della sua vittoria ai Giochi degli Anfizioni, dove cantò agli Elleni melodie e versi elegiaci con la musica del flauto”.
Il termine Έλλησι (“agli Elleni”) sta a significare già una prima coscienza collettiva: un popolo unito da lingua, religione, cultura e memoria, nonostante la frammentazione politica in città-stato.
Il termine Greco, così come Grecia, è un’esportazione romana. I Romani iniziarono a usare Graeci per indicare i primi coloni greci stabilitisi in Italia, soprattutto quelli provenienti dalla Beozia, in particolare dalla città di Graia (o Graea), menzionata già nel Catalogo delle navi dell’Iliade e poi da Pausania. Secondo Aristotele, i Graikoi abitavano le regioni attorno a Dodona, in Epiro. Con il tempo, il nome usato per un piccolo gruppo si estese a tutto il popolo ellenico. E così, mentre i greci si definivano “elleni”, per il mondo latino e poi per l’Occidente cristiano essi divennero “greci”. Questa designazione, trasmessa attraverso la lingua latina, sopravvisse a Roma e si radicò nell’Europa medievale e moderna.
Con i suoi circa 57mila km², la Grecia è un paese piccolo, poco più grande della Svizzera. Eppure, in questo spazio ridotto, la natura si esprime in forme potentemente drammatiche: montagne scoscese, pianure limitate, coste frastagliate, e un arcipelago di oltre 1.400 isole. Questa geografia difficile ha influenzato in profondità l’organizzazione sociale e politica del mondo greco: un popolo di montanari, agricoltori di sussistenza, pescatori e soprattutto navigatori, costretti a confrontarsi con un paesaggio inospitale ma ricco di varietà.
Nel cuore della Grecia corre la catena del Pindo, spina dorsale della penisola, che separa l’Epiro dalla Tessaglia, la regione più fertile del paese. Verso sud, il terreno si frantuma nel Peloponneso, quasi un’isola separata dal resto della penisola dall’istmo di Corinto, e che ospita alcune tra le città più gloriose dell’antichità: Sparta, Argo, Olimpia, Micene.
Per comprendere meglio l’estensione e la complessità del mondo greco, possiamo dividere l’antica Ellade in quattro grandi zone:
Includeva regioni come l’Epiro, la Tessaglia, la Macedonia e la Tracia. Se l’Epiro era una regione montuosa e religiosa (con il santuario oracolare di Dodona), la Tessaglia era il “granaio” della Grecia, ricca e coltivabile. La Tracia, invece, selvaggia e temuta, era teatro di colonizzazione greca e leggende mitiche.
Comprendeva regioni di grande importanza culturale come la Beozia (con Tebe), la Focide (con Delfi, centro spirituale panellenico), l’Attica (con Atene, futura guida della civiltà greca), e altre come la Locride e la Doride. Questa parte della Grecia rappresenta il cuore pulsante della classicità.
Dominata dal Peloponneso, questa regione ospitava Sparta in Laconia, l’Arcadia poetica, Corinto e le antiche città micenee. Qui si tenevano i Giochi olimpici a Olimpia, e qui fiorirono civiltà tra le più antiche e raffinate del mondo egeo.
Il mondo greco non si limitava alla penisola. Le isole del Mar Ionio (come Itaca, Corfù, Cefalonia), le Cicladi e le Sporadi, l’Eubea e la Creta minoica, costituivano un sistema di scambi continuo. Oltre il mare, lungo la costa dell’Asia Minore – l’attuale Turchia occidentale – si svilupparono potenti colonie come Efeso, Mileto, Smirne, fucine di pensiero filosofico e scientifico. Era la Ionia, la culla del pensiero razionale.
Nonostante la frammentazione politica – polis autonome, spesso in guerra tra loro – i greci si sentivano parte di un unico mondo. Condividevano lingua (in molte varianti dialettali), religione (gli dèi olimpici), istituzioni comuni (come le Olimpiadi e i Giochi Pitici), e una mitologia che serviva da linguaggio simbolico condiviso. I santuari panellenici come Delfi, Olimpia e Delo erano punti di convergenza culturale.
In questa coesione spirituale, l’Ellade trovava la propria unità. La Grecia antica fu tutto tranne che un monolite: era una costellazione di mondi, di esperienze e di idee. Ma fu proprio in questa pluralità, e nella capacità di dialogare anche con l’altro – persiani, egizi, traci, fenici – che si costruì la civiltà ellenica, una delle più durature e influenti della storia.

Le esplorazioni.
I Greci concepivano il mondo come uno spazio finito, racchiuso in ogni direzione dalle acque primordiali dell’Oceano. Questa rappresentazione cosmologica, tipica dell’immaginario arcaico, trovava la sua espressione più alta nella poesia epica: l’Iliade e l’Odissea, oltre a essere testi fondativi della cultura greca, erano anche mappe simboliche del mondo conosciuto e sconosciuto. L’Oceano non era un semplice mare, bensì un fiume ciclopico, che scorreva incessante tutto attorno alla terra, origine di ogni altra acqua e di natura divina.
Le terre che lambivano l’Oceano, lontane e quasi inaccessibili, erano ritratte come luoghi meravigliosi e pericolosi, sede di creature fantastiche e di ricchezze inimmaginabili. Solo gli eroi, guidati o aiutati dagli dei, potevano sperare di raggiungerle: così fece Eracle quando si spinse fino all’isola di Erizia, nel remoto Occidente, per affrontare Gerione, il mostro tricefalo custode di mandrie divine. Così fece anche Perseo, nella sua missione contro le Gorgoni, e ancora gli Argonauti, alla ricerca del vello d’oro, diretti verso la Colchide, nel lontano Oriente.
Il mito greco, dunque, confondeva la geografia con la cosmologia e la teologia: le terre ai confini del mondo erano luoghi sacri, dove gli dei avevano confinato le forze primordiali che avevano minacciato l’ordine dell’Olimpo — titani, giganti, mostri — e che rappresentavano l’alterità assoluta rispetto al mondo umano civilizzato.
Tra l’VIII e il VI secolo a.C., con l’inizio delle grandi colonie greche in Occidente e in Oriente, lo spazio del mondo iniziò ad allargarsi. La costa del Mar Nero fu progressivamente identificata come il teatro di avventure mitiche precedentemente situate in un altrove imprecisato. Lo stesso avvenne con l’Occidente, dove luoghi come la penisola iberica e le coste africane iniziarono a prendere il posto dell’Oceano mitico.
Nonostante questa crescente concretezza, il viaggio oltre i confini del conosciuto rimase sempre un atto eroico o divino. Esemplare è il caso del navigatore Coleo di Samo, che raggiunse Tartesso guidato dai venti e dal volere divino, o di Aristea di Proconneso, il poeta e viaggiatore “sciamano”, che sotto l’ispirazione di Apollo si muoveva tra i mondi come un’ombra. Le fonti greche descrivono così l’ignoto non solo come remoto, ma anche come altero: popolato da creature mostruose, uomini con un solo occhio, popoli che dormono sei mesi l’anno, o ancora uomini dalle zampe caprine e creature alate a guardia dell’incenso e dell’oro.
Questo immaginario si mantenne saldo anche quando le conoscenze geografiche fecero significativi progressi. Le campagne dell’Impero persiano, da Cambise a Dario, e ancor di più le conquiste di Alessandro Magno, portarono i Greci fino all’India e al cuore dell’Asia. Tuttavia, l’influenza delle fonti mitiche e la fascinazione per il meraviglioso continuarono a contaminare anche i resoconti più “storici”.
Erodoto di Alicarnasso, viaggiatore e storico del V secolo a.C., rappresenta il momento di transizione tra mito e storia. Nelle sue Storie, le descrizioni dei luoghi remoti — come l’India, l’Arabia o l’estremo Nord — oscillano tra osservazione etnografica e racconto favoloso. Racconta, ad esempio, delle formiche giganti che custodivano l’oro dell’India, dei serpenti alati che difendevano l’incenso arabo, degli Arimaspi, popolo con un solo occhio che combatteva contro i grifoni, guardiani dell’oro. La linea tra realtà e leggenda rimane sottile, e il suo ruolo di storico non lo libera del tutto dal fascino dell’incredibile.
Una delle figure più affascinanti in questo contesto è quella di Eutimene di Massalia (l’odierna Marsiglia), un navigatore greco vissuto probabilmente tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. Secondo Marciano di Eraclea, Seneca, Eforo e altre fonti antiche, Eutimene compì una spedizione verso le coste dell’Africa occidentale, esplorando parte del mare esterno (ossia l’Oceano Atlantico).
Secondo quanto riferito, egli raggiunse un grande fiume popolato da coccodrilli e ippopotami, che identificò come il Nilo, credendo erroneamente che la sua sorgente fosse collegata all’oceano. In realtà, sulla base delle caratteristiche descritte (animali, piene stagionali, acque dolci), è probabile che si trattasse del fiume Senegal.
L’errore derivò probabilmente dalla teoria dei venti etesii, secondo cui questi venti stagionali impedivano al Nilo di defluire verso il mare, causando le sue piene. Questa idea, ripresa da Talete e accolta anche da Eutimene, sembrava trovare una conferma nei comportamenti simili del fiume africano osservato durante il viaggio. Tuttavia, Elio Aristide, nel suo trattato Sull’Egitto, confutò la versione di Eutimene, sostenendo che nessun marinaio cartaginese o gaditano avesse mai osservato tali fenomeni.
L’impresa di Eutimene, al pari di quella di Pitea verso le coste settentrionali dell’Europa, si inquadra nel tentativo di espansione commerciale della polis di Massalia. In competizione con il monopolio cartaginese sulle rotte occidentali, Marsiglia cercò di aprire nuovi itinerari via mare verso il sud atlantico e il nord europeo, aggirando i porti controllati dai Fenici.
Queste spedizioni ebbero anche un impatto culturale, poiché rafforzarono l’idea — già presente nei racconti epici — di un mondo pieno di meraviglie ai suoi confini. Perfino nei racconti dei compagni di Alessandro Magno, come Onesicrito o Nearco, riemergono immagini familiari: animali colossali, selvaggi dalla cultura misteriosa, sapienti nudi immersi nella meditazione sotto il sole cocente.
Nonostante l’ampliamento delle conoscenze e la progressiva razionalizzazione del sapere geografico, l’immaginario mitico non fu mai del tutto superato. Le fonti antiche — anche quelle storiche — non cessarono di rappresentare i confini del mondo come spazi straordinari, popolati da esseri favolosi, uomini sapienti e tesori celati.
Fino al Rinascimento, la cartografia stessa si basava ancora largamente sulle idee di Tolomeo, che fondevano misurazione e mito, geografia empirica e cosmografia simbolica.
La figura di Eutimene, pur nella sua ambiguità tra storico e favolista, rappresenta perfettamente la tensione tipica del pensiero greco antico: un eterno dialogo tra razionalità e mito, tra esplorazione e racconto, tra ciò che si vede e ciò che si immagina.