Al-Baghdadi e Tacfarinas: vite parallele

Cos’hanno in comune l’ex capo dell’Isis e un antico rivoluzionario numida.

Gianluca Vivacqua

Fedeli alla lezione plutarchea, in questo articolo cercheremo di mettere in parallelo le vite di due figure a metà tra il rivoluzionario e il banditesco, e più precisamente di Abū Bakr al Baghdādī, il capo dell’Isis di cui Trump ha annunciato la morte in un raid in Siria alla fine di ottobre, e di Tacfarinas, il disertore dell’esercito romano che con la sua milizia di irregolari berberi fu la spina nel fianco delle legioni in Africa per sette anni. Alla fine cercheremo di tracciare una synkrisis, cioè un giudizio comparativo di entrambi i profili.
Al Baghdādī, nato a Samarra in Iraq nel 1971, all’epoca della II guerra del Golfo aveva alle spalle studi di diritto. Probabilmente sarebbe diventato un mufti di sentimenti reazionari ma pacifico se non avesse avuto l’incontro fatale con il giordano al-Zarqāwī, capo del braccio iracheno di al Qaeda. Quando entrò nella rete di bin Laden, comunque, era già una figura di tutto rispetto negli ambienti religiosi islamici. Proprio nel ruolo di imam che già ricopriva infatti, mescolando impegno patriottico e fanatismo religioso, si impegnò al fianco dei binladeniani in quella che fu una vera e propria caccia alle streghe contro i collaborazionisti del governo messo in piedi dagli americani. In al-Qaeda, infatti, fece strada come presidente di tribunali speciali il cui compito era quello di stanare e giudicare i cittadini che nutrivano sentimenti filo-americani. Ma non soltanto: organizzava anche il braccio armato di quel particolare tipo di legge, bande incaricate di prelevare con la forza gli iracheni sospettati di “tradimento”.
Erano quelli i tempi in cui al Baghādī veniva conosciuto come l’Emiro di Rāwa: un titolo piuttosto altisonante in ambito islamico (e dovuto probabilmente al fatto che Rāwa, insieme con Falluja e Ramadi, era l’area principale dell’attività sua e delle sue bande), ma che non sembra abbia impressionato più di tanto gli iracheni filo-governativi che, a Falluja, nel febbraio 2004, lo catturarono e lo sbatterono in carcere. Né particolarmente insidioso veniva considerato dagli americani che lo ebbero in custodia nelle loro carceri a Camp Bucca e Camp Ader per quasi un anno.Anche se le circostanze della sua liberazione sono tutt’altro che trasparenti venne rilasciato, infatti, con l’etichetta quasi infamante di “prigioniero di basso livello”. Sette anni dopo, però, la reputazione di al Baghdādī sarebbe diametralmente cambiata. Nell’ottobre 2011, infatti, figurava nell’elenco dei terroristi più ricercati e sul suo capo incombeva una taglia di 25 milioni di dollari: praticamente aveva raggiunto lo stesso valore di al Zawahiri, il diadoco di bin Laden alla guida di al-Qaeda.
Cos’era successo? Nel 2006 al Zarqāwī aveva deciso di far evolvere la succursale irachena di al-Qaeda fondendo i movimenti di resistenza agli americani di ben sei governatorati sunniti dell’Iraq. Nasceva così lo Stato Islamico dell’Iraq (ISI), praticamente una sorta di Stato combattente dentro un altro Stato. Per la verità al-Zarqawi si limitò a fare il padre nobile, giacché i comandanti effettivi furono, fin dall’inizio, un egiziano, Abū Ayyūb al Maṣrī, e un iracheno, Abū Omar al Baghdādī. Di quest’ultimo il nostro Abu Bakr al Baghdādī era diventato talmente intimo da essere nominato suo vice. C’è di più: lui che in realtà si chiamava Ibrāhīm al-Badrī cambiò il proprio nome in… al Baghdādī proprio in onore del suo superiore e, probabilmente, su sua stessa indicazione. Chiunque, a quel punto, avrebbe potuto scommettere che, periti tragicamente entrambi i capi del’ISI nel corso di un’operazione congiunta iracheno-americana, nuovo capo della milizia sarebbe stato al Baghdādī II. Era il 18 aprile 2010: e da nulllità quasi assoluta, l’ex galeotto di Camp Bucca diventava per Washington uno dei principali leader terroristici da eliminare.
Dando ad Abū Bakr al Baghdādī le redini dell’ISI, il suo precedecessore Abu Omar ci aveva visto lungo. In pochi anni, infatti, sotto la guida di al Baghdādī II l’ISI realizzò un’importante sinergia con i gruppi estremisti siriani e divenne ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e della Siria) o ISIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, in arabo più semplicemente Daesh). La nuova sigla fu lanciata ufficialmente nel 2013. Il 29 giugno del 2014, quando come un nuovo grande conquistatore islamico Abū Bakr al Baghdādī poté proclamarsi califfo del suo Stato islamico, l’ISIS aveva in effetti raggiunto la suia massima espansione territoriale (Iraq settentronale e Siria occidentale). Ma aveva anche già dovuto affrontare aspre frizioni con la casa madre, al Qaeda, contraria al proposito di al Baghdādī di fondere il suo movimento con al Nusra, il fronte combattente islamico della Siria. Gli intenti monopolistici ed egemonici dell’ISIS a guida al Baghdādī,anzi, avevano fatto sì che al-Zawahiri (il nuovo capo di al Qaeda dopo la morte di bin Laden) sconfessasse lo Stato Islamico. Questo era avvenuto nel febbraio del 2014.
Nonostante la disapprovazione “materna”, l’Isis era però tutt’altro che isolato. Legami effettivi o semplicemente “affettivi” ne estendevano idealmente l’influsso in tutta l’Africa mediterranea (Libia, Tunisia) e la sua presenza non mancava neppure nell’Africa centro-orientale, con Boko Haram che, a più riprese, vantava un filo diretto se non proprio una parentela con l’ISIS. Inoltre, lo Stato Islamico aveva molta presa mediatica in Occidente e nell’immaginario collettivo relativo al terrore era praticamente riuscito a sostituire al-Qaeda: una buona fetta dei merito probabilmente si può ascrivere ai trascorsi di al Baghdādī come implacabile Torquemada dei concittadini colpevoli di filo-americanismo. C’è molto dell’animo dell’al Baghdādī aguzzino in quell’identità dell’Isis tagliagole e tagliateste che tanto ha impressionato gli osservatori e gli spettatori occidentali.
La lenta decadenza dell’Isis inizia nel 2016 e inizia dalla Siria, la “provincia” conquistata ma mai del tutto incorporata nel Califfato (a dispetto del fatto che la sua capitale, Raqqa, si trovava proprio lì). Alla fine del 2018 l’estensione territoriale dell’Isis è tornata ad essere più o meno quella delle origini. Parallelamente non decadeva di certo l’importanza del suo leader come pericolo da eliminare. A partire dal 2012, anzi, è stato tutto un intensificarsi di attentati in forma di raid contro la sua persona, sfumati o falliti per un dettaglio.
Ed era l’ennesimo attentato in forma di raid quello che, Il 27 ottobre 2019, portò al risultato tanto agognato dagli americani ma anche dai russi, che a Raqqa, nel 2017, erano andati vicinissimi ad ucciderlo. Al presidente Trump mancò soltanto la soddisfazione di poter dire che al Baghdādī era morto effettivamente sotto le bombe Usa: in realtà a Barisha, un villaggio nel nord-ovest della Siria, a cinque chilometri dal confine con la Turchia, al Baghdadi, che si era portato dietro una buona parte della sua famiglia non tanto per tentare un’offensiva quanto per nascondersi, in attesa di nuova sistemazione, si diede la morte da sé facendosi esplodere. E così restituì la sua anima ad Allah da vero kamikaze, come non era riuscito neppure a bin Laden e ad al Zarqāwī.
Di Tacfarinas non si conoscono né la data né il punto preciso di nascita, in Numidia. La sua biografia inizia perciò con il suo servizio come ausiliario nell’esercito romano. Era un ufficiale, e a quanto sembra anche di buone prospettive. Non è chiaro se fu cacciato dall’esercito per un episodio di insubordinazione, nel qual caso Tacfarinas sembrerebbe una sorta di Coriolano che scatena una rivolta contro i Romani per vendetta personale, o se fu lui ad abbandonare i ranghi, desideroso di cavalcare una ribellione che in Numidia (che ggi corrisponde a una metà dell’Algeria e a una parte della Tunisia) e nella vicina Libia (quindi nei territori della provincia dell’Africa Proconsolare) era nell’aria. Quel che è certo è che quando disse addio ad una brillante carriera nell’esercito dei conquistatori si mise a raccogliere intorno a sé una torma di indigeni sempre più nutrita: perlopiù questi erano accomunati da un sincero sentimento antiromano, ma molti erano dei veri e propri briganti, desiderosi solo di razzia. Male addestrati alla guerra e peggio armati, questi Numidi potevano però contare su una guida preparata, che conosceva da di dentro i segreti militari del nemico. Era il 17 d.C.
Si trattava, dunque, di un’armata Brancaleone di qualche migliaio di uomini che Tacfarinas pensò bene di addestrare con il pane adatto, le rapine e i saccheggi ai danni dei coloni romani. La cosa, se non intimoriva ancora le truppe capitoline sul piano bellico, di certo procurava ai suoi uomini, nei territori numidi, una fama terrificante, e soprattutto l’intrigata attenzione delle tribù che volevano sollevarsi contro i Romani e stavano aspettando un capo all’altezza.
Musulami, Garamanti e poi anche una parte dei Mauri, popolo fedele ai Romani. Quando tutte queste popolazioni finirono col costituire quasi un fronte unico al comando di Tacfarinas, i Romani cominciarono a ricredersi sulla pericolosità dell’ex disertore. All’improvviso era spuntato un altro Spartaco, con la pelle tendente al moro. E più coriaceo dello Spartaco originale: se il conflitto col gladiatore trace era durato tre anni, le legioni non riuscirono ad avere ragione di Tacfarinas e dei suoi alleati prima di sette anni.
Ma Tacfarinas riuscì a durare di più perdendo anche di più: puntualmente soccombente negli scontri diretti con i Romani,dove veniva sconfitto (successe con Furio Camillo e con Apronio) o batteva in ritirata anzitempo (come successe con Bleso), egli aveva però la capacità di riorganizzarsi quasi subito e di ripresentarsi con le sue azioni di disturbo e di devastazione nei confronti della popolazione inerme filo-romana o di singoli distaccamenti dell’esercito nemico. Godeva, poi, dell’appoggio incondizionato delle popolazioni interne. Finché fosse rimasto vivo, insomma, sarebbe stato irriducibile.
Di sicuro, però, il più importante successo ottenuto da Tacfarinas era stato, ad un certo punto, quello di essere riuscito a mettere così tanta paura ai Romani da indurre l’imperatore Tiberio a trasferire eccezionalmente in Numidia due intere legioni, la IX Hispana e l’VIII Augusta, di stanza in Pannonia (corrispondente ad una parte dell’attuale Austria e dell’Ungheria), dove la situazione, specialmente in quegli anni, non era molto più tranquilla. In realtà fu anche grazie all’apporto di queste legioni che il governatore Bleso poté prevalere sui rivoltosi.
Nel decidere di concentrare una tale massa di uomini sul fronte tacfarinatiano, Tiberio non aveva in mano solo vaghe testimonianze di angoscia o di preoccupazione. Egli poté misurare con precisione il grado di estensione della rivolta e il livello di motivazione dei suoi capi leggendo le richieste che lo stesso Tacfarinas gli formulava, attraverso un’ambasceria inviatagli a Roma tra il 21 e il 22. Il ribelle chiedeva, in sostanza, che il suo Stato Berbero della Numidia e della Libia (SBNL, se è possibile immaginare un acronimo), già esistente nei fatti, ottenesse il riconoscimento ufficiale di Roma: voleva, quindi, che l’ampia area territoriale conquistata dalla sua ribellione divenisse un vero e proprio Stato indipendente. Quale impudenza! Ma se ci fosse un reale pericolo?
Ed ecco che la risposta di Roma fu, come detto, l’invio di due legioni complete per eliminare il problema. Che però in realtà non fu eliminato del tutto. Così, fatte rientrare in Pannonia la IX Hispanica e l’VIII Augusta, toccò al successore di Bleso, Dolabella, chiudere in modo definitivo il dossier. Al terrore che le bande di Tacfarinas diffondevano nei territori il nuovo governatore rispose con altro terrore, stile Gestapo. Ordinò subito l’arresto di tutti i notabili delle popolazioni che offrivano appoggio a Tacfarinas e protezione ai suoi miliziani: fioccavano premi per spie e delatori. Chi, invece, decideva di rimanere fedele alla causa rivoluzionaria fino alla fine veniva passato per le armi. Quella decimazione che Apronio aveva applicato ai soldati per ottenere più ferocia guerriera in campo aperto ora Dolabella la rivolge, senza troppi complimenti, alla popolazione civile. La “strategia del terrore” si dimostra fruttuosa e, nel 23, nottetempo, le truppe romane possono piombare di sorpresa sui nemici a riposo. Tacfarinas, naturalmente, non è né tra coloro che cadono né tra coloro che si fanno catturare. Riesce a rifugiarsi tra le mura di una delle sue piazzeforti, Auzea, e si uccide per non cadere in mano nemica. Riguardo alla sua fine ci sarebbe però anche un’altra versione: quella secondo cui, dopo aver visto il figlio catturato, si sarebbe lanciato nella mischia e qui avrebbe cercato e trovato la morte combattendo.In entrambi i casi, comunque, non esalò l’ultimo respiro contro la sua volontà.
Il primo tratto in comune che si può osservare tra i due personaggi è che entrambi conoscevano molto bene dal di dentro i loro nemici, o per aver provato la durezza delle loro carceri (è il caso di al Baghdadi) o per aver servito, e non senza un certo profitto, nelle file del loro esercito (parliamo di Tacfarinas). Sia al Baghdadi, poi, quando fu scarcerato dagli americani, che Tacfarinas, quando abbandonò l’esercito romano, erano considerati personaggi assolutamente irrilevanti, per poi essere valutati come elementi di estrema pericolosità a distanza di poco tempo. Sia al leader del Califfato che al capo della rivolta in Numidia, poi, va riconosciuta la grande capacità di aver saputo gestire una scapestrata milizia di irregolari e di averla aumentata di numero trasformando dei banditi in temibili guerrieri, votati, in base ai casi, alla guerriglia territoriale o alla guerra terroristica. Grande coraggio denota infine, da parte di tutti e due, la scelta di suicidarsi per non cadere prigionieri nelle mani dei nemici: per quanto riguarda al Baghdadi, in realtà, come sappiamo, essere imprigionato sarebbe stato un bis di un’esperienza già vissuta. Rispetto ad al Baghdadi, Tacfarinas ebbe però la capacità di convertire alla sua causa intere popolazioni, mentre la politica praticata da al Baghdadi alla guida dell’Isis portò presto il suo movimento a trovarsi sostanzialmente isolato.