Archiviato l’Inf: è corsa al rimarmo

di C. Alessandro Mauceri

Il presidente USA Donald Trump ha autorizzato nei giorni scorsi il lancio di un missile da crociera a terra, che ha centrato l’obiettivo distante 500 chilometri. A darne conferma è stato il Pentagono, senza tuttavia specificarne nei dettagli la tipologia.
La decisione degli USA ha destato molte preoccupazioni. In primo luogo perché quello appena effettuato è solo il primo test di questo tipo, ed un altro missile balistico a medio raggio sarà lanciato a novembre. E poi perché questo lancio avviene solo pochi giorni dopo la chiusura unilaterale da parte degli USA, avvenuta il 2 agosto, del trattato INF, il secondo più importante trattato sul controllo degli armamenti dai tempi della Guerra Fredda. L’accordo, siglato nel 1987 dall’allora presidente Ronald Reagan e dal leader sovietico Mikhail Gorbachev, vietava l’utilizzo di missili terrestri con un gittata da 310 a 3.400 miglia (da 500 a 5.500 km). Una decisione quella di abbandonare il trattato motivata dalle accuse alla Russia di fare altrettanto, ed effettivamente già in marzo il presidente russo Vladimir Putin aveva annunciato la costruzione di un missile supersonico a combustibile misto-nucleare, probabilmente del tipo di quello che 16 giorni fa ha subito un incidente ad Akhangelsk liberando radiazioni ionizzanti. Putin ha fatto notare che il test missilistico è avvenuto solo 16 giorni dopo la conclusione del trattato INF, cosa questa che indicherebbe che entrambe le potenze avevano già da tempo iniziato a lavorare sui nuovi sistemi vietati dal trattato.
Ciò che è certo è che la decisione del presidente Trump ha inasprito i rapporti tra Stati Uniti d’America e Russia, e tra i due litiganti si è inserita la Cina, che non aveva sottoscritto l’INF e che in questi giorni ha annunciato la consegna ai reparti specifici del nuovo missile supersonico DF-17, testato lo scorso anno ed in grado di avere una gittata di 2.500 km.
“Gli USA potrebbero schierare nuovi missili a media gittata in Romania e in Polonia, e in questo caso la Russia reagirà alle ‘nuove minacce’”, ha dichiarato il presidente russo Vladimir Putin, il quale però ha sistemato rampe di lancio per missili nucleari in Crimea ed ha consegnato già nel 2017 alle divisioni nucleari di Novosibirsk (Siberia), di Tagil (Urali), di Koselsk (vicino al confine con la Bielorussia) e di Yoshkar-Ola (distretto del Volga) il sistema RS-24 Yars, con missili atomici in grado di percorrere 11mila Km. Proprio due giorni fa due sottomarini russi hanno testato nel Mar Artico due missili, uno di tipo Sineva ed uno Bulava. Riferendosi al vettore lanciato dagli Usa, Putin ha dichiarato che “Lanci di missili di questo genere potrebbero essere effettuati da rampe già presenti in Romania e che dovrebbero essere prossimamente posizionate in Polonia. Per questo è necessario solo cambiare il software”. Alcune immagini del test infatti mostrerebbero che il lancio è stato effettuato utilizzando un sistema Mark 41, lo stesso del sistema di difesa missilistica Aegis Ashore, ma anche quello presente (secondo fonti russe) in Europa. “Come potremmo sapere cosa dispiegheranno in Romania e Polonia: sistemi di difesa antimissile o sistemi di missili di attacco con una portata significativa?”, si è chiesto Putin nel corso di una riunione del Consiglio di sicurezza, durante la quale ha accusato gli Stati Uniti di voler condurre una “campagna propagandistica” contro la Russia per la violazione degli accordi e di “dispiegare i missili precedentemente vietati in diverse parti del mondo”.
Per questo motivo Putin ha ordinato al Ministero della Difesa di “adottare misure globali per preparare una risposta simmetrica”.
Un portavoce del Pentagono, il tenente colonnello Robert Carver, ha contestato l’affermazione di Putin dicendo che il sistema di lancio americano in Romania “non ha la capacità di sparare armi offensive di alcun tipo”, come ad esempio il missile Tomahawk utilizzato nel test americano del 18 agosto. “Può lanciare solo l’Interceptor SM-3”, ha detto Carver, aggiungendo che ci vorrebbe “una costruzione di livello industriale per riconfigurarlo”.
Il leader russo non ha precisato le possibili misure di ritorsione, ma alcuni esperti militari di Mosca hanno teorizzato che la Russia potrebbe adattare i missili da crociera Kalibr lanciati via mare all’uso da parte dei lanciatori di terra. In risposta alle mosse degli Stati Uniti, la Russia continuerà a lavorare su nuove armi ma manterrà un stretto controllo sulla spesa: “Non siamo attratti da una costosa corsa agli armamenti che sarebbe disastrosa per la nostra economia”, ha detto Putin, sottolineando che la Russia è “solo” al settimo posto nelle spese militari”, dopo Stati Uniti, Cina, Arabia Saudita, Gran Bretagna, Francia e Giappone. Putin ha ribadito che la Russia rimane aperta a un “dialogo equo e costruttivo con gli Stati Uniti per ricostruire la fiducia reciproca e rafforzare la sicurezza internazionale”.
Sono in molti a pensare che il fallimento dell’accordo potrebbe minare altre intese di controllo delle armi e accelerare la bocciatura delle procedure già avviate e approvate a maggioranza presso le Nazioni Unite per bloccare la diffusione e addirittura costringere alla completa messa al bando delle armi nucleari. L’INF infatti era il secondo importante trattato sul controllo degli armamenti dai tempi della Guerra Fredda. Un accordo che aveva aperto la strada verso la non proliferazione dei missili balistici e verso lo smantellamento, dopo la fine del trattato sui missili anti-balistici ABM del 2001. L’unico trattato di controllo degli armamenti ancora in vigore è ora il New START, che dovrebbe scadere a febbraio 2021. Ma, come ha fatto notare il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton nell’ottobre 2018, cioè poco prima di annunciare l’uscita dall’INF, “C’è una nuova realtà strategica là fuori”. In quell’occasione davanti ai giornalisti Bolton parlò dell’INF come di una “reliquia della Guerra Fredda”, un “trattato bilaterale in un mondo multipolare di missili balistici”, che si applicava solo agli Stati Uniti e alla Russia in Europa e non aveva nessun peso sulle azioni di paesi come Cina, Iran o Corea del Nord.
Un giro d’affari di miliardi di dollari visto anche il florido mercato che hanno, come dimostra il recente scontro tra USA e Turchia proprio per la vendita di missili e aerei da guerra. Un dato non secondario dal momento che solo pochi giorni fa il Pentagono, dopo aver speso quasi 1,2 miliardi di dollari per questo progetto, per voce del sottosegretario alla Difesa per la ricerca e l’ingegneria Michael Griffin ha annunciato di volerlo chiudere: a maggio infatti aveva ordinato alla Boeing fornitrice di questi missili di interrompere il lavoro, in attesa di una decisione sulla via da seguire. Mark Wright, portavoce dell’Agenzia per la difesa antimissile del Pentagono, ha affermato che i dettagli sui problemi tecnici che hanno portato alla conclusione del progetto non saranno resi noti “a causa della natura classificata del programma”, mentre la Boeing ha fatto sapere di accettare la decisione e di voler partecipare ad una nuova gara per un nuovo intercettore missilistico. Michael Doble, portavoce di Raytheon Co., ha reso noto che il Pentagono starebbe “aggiornando i propri requisiti di fronte a un ambiente di minaccia sempre più complesso”. La cosa curiosa è che il Pentagono era già stato autorizzato dal Congresso a portare a 64 l’attuale flotta di 44 intercettori.
Giri d’affari miliardari legati ad armi ed armamenti per il controllo strategico e politico di ampie parti del globo. Perché di questo siamo parlando.