Australia. AUKUS: il progetto dei sottomarini alla prova tra ambizioni globali e fragilità alleate

di Giuseppe Gagliano

Il programma AUKUS, l’accordo trilaterale tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia per dotare Canberra di sottomarini d’attacco a propulsione nucleare, entra in una fase critica. La revisione avviata dal Pentagono solleva interrogativi sul futuro del più ambizioso progetto di difesa della storia australiana, mentre emergono divergenze strategiche tra Washington e Canberra.
L’ambasciatore australiano Kevin Rudd ha cercato di gettare acqua sul fuoco, dichiarando all’Aspen Security Forum che “tutte le questioni sollevate saranno superate”. Ma dietro le rassicurazioni si cela una tensione crescente: gli Stati Uniti vogliono garanzie sul ruolo dell’Australia in un eventuale conflitto con la Cina, mentre il governo di Anthony Albanese difende la propria autonomia strategica.
Svelato nel 2023, il piano AUKUS prevede che l’Australia riceva i primi sottomarini a propulsione nucleare nei primi anni 2030. Si tratta di una risposta diretta alla crescente assertività cinese nell’Indo-Pacifico e all’espansione della marina di Pechino, che già schiera una delle più grandi flotte di sottomarini del mondo.
Ma Washington, alle prese con l’agenda “America First” del presidente Trump e con la pressione sulla propria industria militare, teme di dover sacrificare le proprie esigenze per sostenere l’Australia. Alcuni alti funzionari americani hanno espresso “preoccupazioni molto serie” sulla capacità di Canberra di integrare questi asset in un quadro strategico che resti fedele agli interessi statunitensi.
L’Australia si trova di fronte a un dilemma: rafforzare la sua capacità di deterrenza contro la Cina senza rinunciare alla propria sovranità militare. Le richieste americane di chiarire il ruolo dei sottomarini AUKUS in un conflitto su Taiwan hanno suscitato irritazione a Canberra. Il ministro della Difesa Pat Conroy ha affermato che l’Australia “non impegnerebbe truppe in anticipo per alcun conflitto”, ribadendo un approccio prudente.
Intanto il Pentagono insiste su un aumento della spesa per la difesa dal 2% al 3,5% del PIL australiano. Albanese ha respinto questa richiesta, dichiarando che “l’Australia spenderà ciò che serve per la propria difesa”. Un segnale che il governo vuole evitare di farsi trascinare in una logica di escalation dettata da Washington.
La revisione americana, inizialmente prevista in 30 giorni, è già in ritardo. Alcuni analisti vedono in questo stallo un possibile ripensamento strategico: se Washington non fosse in grado di garantire la propria flotta, potrebbe frenare anche il trasferimento tecnologico all’Australia. D’altro canto, un fallimento del progetto AUKUS sarebbe un colpo alla credibilità americana nel costruire alleanze per contenere la Cina.
Il progetto non è solo una questione tecnica o economica, ma un banco di prova per la tenuta dell’ordine regionale. La Cina osserva con attenzione, consapevole che ogni ritardo o frattura tra Stati Uniti e Australia offre margini di manovra per consolidare la propria influenza marittima.
La revisione del Pentagono mette in luce le contraddizioni di un’alleanza che oscilla tra cooperazione e subordinazione. Se gli Stati Uniti insisteranno per un impegno australiano in scenari come Taiwan, Canberra dovrà scegliere tra consolidare la propria autonomia strategica o accettare un ruolo subalterno in una guerra che rischia di coinvolgere tutto il Pacifico.
Per ora l’AUKUS resta il simbolo di un’era di competizione strategica e di una corsa navale che determinerà l’equilibrio del XXI secolo. Ma senza un’intesa chiara sugli obiettivi e sui limiti della cooperazione, potrebbe trasformarsi in un’arma spuntata prima ancora di vedere il mare.