Biden e le speranze dell’Europa

di Giovanni Ciprotti

Nel novembre scorso l’Europa intera, con qualche isolata eccezione, si sentì rassicurata dalla vittoria di Joe Biden alle presidenziali statunitensi.
Dopo le drammatiche immagini del 6 gennaio 2021, che avevano fatto conoscere al mondo la devastazione del Campidoglio di Washington per opera dei sostenitori più estremisti del presidente uscente, nel Vecchio Continente opinioni pubbliche e leader politici erano convinti che con il nuovo presidente Usa si sarebbe aperta una nuova epoca di concordia tra americani ed europei.
Nei quattro anni di Donald Trump alla Casa Bianca, l’America aveva cancellato ogni traccia di multilateralismo e rigettato diversi accordi internazionali, da quello di Parigi sul clima a quello sul nucleare iraniano fino all’uscita dal trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty, siglato da Ronald Reagan e Michail Gorbacev nel 1987).
Trump aveva alterato gli equilibri nelle relazioni con gli alleati europei, messo in discussione l’importanza della Nato, scatenato la guerra commerciale con la Cina e reso di nuovo tesi i rapporti con l’Iran. Con il ritorno nello Studio Ovale di un uomo dell’establishment, un democratico già vice-presidente di Barack Obama, si sarebbe tornati ad una gestione più collegiale degli affari mondiali.
È sull’onda di quella speranza e quella fiducia che il presidente Biden è sbarcato pochi giorni fa sul suolo britannico, per partecipare in Cornovaglia al suo primo G7 e immediatamente dopo al vertice Nato di Bruxelles.
Il presidente statunitense non ha deluso le aspettative dei leader europei, riconoscendo all’Europa e alla Nato quella centralità strategica che sembrava svanita fino a pochi mesi fa. Ma nel ribadire l’importanza dell’alleanza atlantica, Biden ha anche dichiarato senza troppi giri di parole che per gli Usa le principali minacce sono costituite da Cina e Russia, contro le quali egli si aspetta un fronte comune euro-statunitense. Non a caso Biden ha definito “un obbligo sacro” l’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico. È stato un richiamo esplicito a quegli stati europei che cercano di mantenere rapporti commerciali autonomi con Mosca o con Pechino, dal progetto “North Stream 2” alla nuova “Via della Seta”.
Il dopo-Trump è iniziato e le due sponde dell’Atlantico sono tornate a parlarsi, ma dal punto di vista europeo dovremmo considerarci soddisfatti?
Forse le parole di Biden hanno suscitato qualche perplessità. Ieri il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha confermato che “il nostro rapporto con la Russia è al livello più basso dalla fine della Guerra fredda e ciò è dovuto alle azioni aggressive russe”, ma ha anche aggiunto di essere “fiducioso che i leader della Nato confermeranno il nostro approccio del doppio binario: una forte difesa combinata con il dialogo”. Per quanto riguarda la Cina, Stoltenberg ha assicurato che “non stiamo entrando in una nuova Guerra fredda e la Cina non è il nostro avversario, non è il nostro nemico”.
L’appello di Biden a costruire un fronte comune contro Cina e Russia nasce dall’esigenza di arginare l’influenza di Mosca e Pechino, che si è rafforzata in diverse aree geografiche e in più settori, ma se la reazione occidentale fosse eccessiva potrebbe avere l’effetto di dare vita ad un’allenza sino-russa molto insidiosa per gli interessi europei e statunitensi.
Nel 1949 la conquista del potere da parte di Mao Tse Tung (la “perdita della Cina”, come veniva chiamata a Washington) aveva preoccupato gli strateghi della Guerra fredda per una possibile coalizione comunista tra cinesi e sovietici in funzione anti-occidentale e aveva originato strategie più dure del “contenimento” elaborato pochi anni prima dal diplomatico americano George Kennan.
Nel corso degli anni Sessanta, i rapporti tra Mosca e Pechino si erano progressivmente deteriorati fino a sfociare, alla fine del decennio, in scontri armati tra le truppe di confine dei due grandi paesi comunisti.
La profonda crisi tra Urss e Repubblica Popolare Cinese fu sfruttata dagli Stati Uniti di Richard Nixon: sotto l’abile e discreta regia di Henry Kissinger, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Washington e Pechino riallacciarono i rapporti interrotti nel 1949. L’operazione sarebbe culminata nel febbraio 1972 con la visita del presidente Nixon a Pechino e con considerevoli vantaggi da ambo le parti: nell’ottobre 1971 la Repubblica Popolare Cinese ottenne il seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu fino a quel momento detenuto da Taiwan; gli Stati Uniti allontanarono definitivamente Mosca da Pechino e scongiurarono il pericolo di un blocco comunista unito che avrebbe potuto contrastare molto più efficacemente l’Occidente.
Oggi la Russia non è la superpotenza che fu l’Unione Sovietica; tuttavia la Cina è enormemente cresciuta dal punto di vista economico. L’ideologia comunista non è più un fattore unificante, ma nelle relazioni internazionali “il nemico del mio nemico è mio amico” e per l’Occidente non sarebbe una buona notizia se Putin e Xi Jinping unissero le loro forze per fronteggiare l’allenza atlantica.