Brasile. Green Peace contro il governo per il disboscamento dell’Amazzonia

di C. Alessandro Mauceri

Oltre all’emergenza coronavirus, il governo brasiliano potrebbe subire un duro colpo dalle ultime scoperte delle inchieste di Greenpeace sulla foresta amazzonica. Da decenni è in atto un duro scontro tra il governo brasiliano e gli ambientalisti impegnati nella tutela della foresta amazzonica: solo nei primi quattro mesi del 2020 sono stati abbattuti circa 1.202 km quadrati (464 miglia quadrate) di foresta amazzonica brasiliana, il 55% in più rispetto allo stesso periodo del 2019, che è stato l’anno peggiore in un decennio. Secondo i ricercatori la perdita di alberi si starebbe avvicinando a un “punto di non ritorno”. E le conseguenze sono già evidenti: secondo l’Osservatorio sul Clima, in Brasile le emissioni sono aumentate del 10-20% rispetto al 2018, quando sono state misurate l’ultima volta. Responsabili le scelte del presidente Jair Bolsonaro, che ha favorito il disboscamento, l’estrazione e l’agricoltura nella foresta e ha indebolito l’applicazione delle leggi per la protezione ambientale.
Prima fra tutte quelle sull’allevamento di bestiame, forse la più grande minaccia alla foresta pluviale amazzonica rimasta: dal 1970 ad oggi ne è andato perduto circa un quinto.
Da sempre Greenpeace si batte contro il commercio di bovini allevati in fattorie illegali nella regione amazzonica. Nel 2009 presentò un rapporto per denunciare il comportamento di alcuni “giganti” della carne, da soli gestivano i due terzi delle esportazioni brasiliane, colpevoli di acquistare carne da allevatori responsabili di disboscamenti illegali. Una di queste aziende, JBS, dichiarò di aver annullato contratti con ben 9mila piccoli fornitori.
Pochi giorni fa Greenpeace ha pubblicato un nuovo rapporto, frutto di tre anni di ricerche, dal quale emerge che in realtà poco è cambiato dal 2009: molte piccole imprese imprese invadono abusivamente parti della foresta amazzonica, abbattono alberi secolari con danni incalcolabili sull’ambiente, vendono il legname e usano il terreno disboscato per allevare bestiame che poi vendono alle grandi imprese. Le quali dal canto loro fingono di non sapere da dove proviene parte della carne che ricevono.
Anche il governo avrebbe le sue responsabilità. Bolsonaro ha sempre rilasciato dichiarazioni controverse sulla foresta amazzonica. Qualche tempo fa ha addirittura annunciato di voler ritirare il Brasile dall’accordo sul clima di Parigi e ha licenziato il capo dell’Istituto brasiliano di ricerca spaziale, l’ente governativo incaricato di monitorare la deforestazione. Ancora più deciso il ministro degli Esteri brasiliano, Ernesto Araújo, che ha definito il cambiamento climatico un complotto di “marxisti culturali”. https://www.theguardian.com/world/2018/nov/15/brazil-foreign-minister-ernesto-araujo-climate-change-marxist-plot
Intanto sulla vicenda è intervenuta la magistratura: la Procura della Repubblica Federale del Brasile (MPF), per mano di Daniel Cesar Avelino, ha aperto un’inchiesta che ha già avuto risultati notevoli: “Sappiamo che l’unico principale fattore di deforestazione in Amazzonia è il bestiame. Vogliamo che tutte le aziende che fanno parte di questo distruttivo catena economica responsabile dei loro crimini economici”. MPF ha anche chiesto un risarcimento di centinaia di milioni di dollari per “crimini ambientali contro la società brasiliana”.
Tra le aziende coinvolte ci sarebbero alcune di quelle finite nel mirino di Greenpeace già nel 2009. Non è la prima volta infatti che JBS, che secondo alcuni è il più grande trasformatore di carne al mondo, finisce sotto inchiesta. Nel 2017 fu costretta a pagare una multa di 7,7 milioni di dollari all’agenzia governativa per l’ambiente Ibama per aver acquistato da fornitori “indiretti” decine di migliaia di capi di bestiame da aree deforestate illegalmente nello stato amazzonico del Pará. Lo stesso anno la polizia federale brasiliana arrestò il suo presidente, Wesley Batista, accusandolo di abuso di informazioni privilegiate. Nel 2019 un’altra indagine del Bureau of Investigative Journalism e Réporter Brasil, pubblicata dal Guardian, portò alla luce che i macelli JBS avevano acquistato bestiame da allevamenti di proprietà una potente azienda di allevamento che operava in modo poco chiaro in barba alla tracciabilità imposta alle aziende europee. Greenpeace, l’agenzia brasiliana Réporter Brasil, Amnesty International, IBIJ sono in molti ad aver denunciato pubblicamente il modo di lavorare di queste multinazionali della carne allevata in Brasile, nelle fattorie amazzoniche coinvolte nella deforestazione. Da un lato queste multinazionali dichiarano di avere sotto controllo i propri “fornitori diretti”: JBS ha ribadito di non acquistare bestiame da fattorie coinvolte nella deforestazione, invasione di riserve indigene, conflitti rurali o conflitti di terra. L’azienda ha dichiarato anche di monitorare ogni giorno più di 50mila potenziali allevamenti di bestiame e di averne già bloccati più di 8mila a causa della non conformità. Dall’altro però molte multinazionali continuano a servirsi di “fornitori indiretti”, ovvero di fattorie che allevano bovini che poi vendono ad aziende che a loro volta forniscono la carne alle multinazionali. “Fattorie pulite” strettamente collegate a “fattorie sporche”, a volte gestite dalle stesse persone.
Un modo di fare che ha avuto risvolti anche sulla finanza mondiale: Nordea Asset Management, una delle società di investimenti del più grande gruppo di servizi finanziari dell’Europa settentrionale (controlla un fondo da 230 miliardi di euro), ha detto di aver cancellato JBS dal proprio portafoglio proprio a causa dei legami del gigante della carne con le fattorie coinvolte nella deforestazione dell’Amazzonia, ma anche per i passati scandali di corruzione. A dare la notizia Eric Pedersen, responsabile degli investimenti “responsabili”. “L’esclusione di JBS è piuttosto drammatica per noi perché proviene da tutti i nostri fondi, non solo da quelli etichettati ESG”, ha detto Pedersen, ed il marchio ESG garantisce gli investitori circa gli standard “ambientali, sociali e governativi” utilizzati per valutare la sostenibilità e l’impatto sociale di una società per gli investitori.
Nordea ha anche rivolto i propri attacchi verso il governo brasiliano: lo scorso anno, dopo la crisi amazzonica, Nordea aveva sospeso l’acquisto di titoli di stato brasiliani.
Lo stesso ha fatto Jan Erik Saugestad, CEO di Storebrand Asset Management norvegese, un gruppo di 29 investitori che gestisce 3,7 trilioni di dollari, che ha dichiarato di essere seriamente preoccupato dell’aumento della deforestazione e dello smantellamento delle agenzie ambientali, che starebbe “creando una diffusa incertezza sulle condizioni per investire”.
Anche banche, a cominciare dalla Banca Mondiale, hanno preso una posizione decisa: WIB ha dichiarato che ritirerà un prestito di 90 milioni di dollari a Bertin che, tra l’altro, sarebbe fornitore di pelle per calzature per aziende come Nike e Timberland: un portavoce di Timberland ha dichiarato di essere “attivamente impegnato con Bertin per comprendere meglio questo problema molto complesso”; Nike ha promesso che indagherà sulla catena di approvvigionamento.
Ma non basta: in Brasile, in Europa e perfino in Cina, molte catene di supermercati hanno già vietato la carne bovina proveniente dalle aree disboscate. L’Associazione brasiliana dei supermercati ha dichiarato di aver annullato i contratti di fornitura con aziende agricole accusate.
L’ultimo rapporto di Greenpeace sembra aver (finalmente) avuto l’effetto sperato. La tutela della foresta amazzonica rimane una delle questioni ambientali più delicate.
Un problema che interessa tutti gli abitanti del pianeta e tutti i governi. A cominciare dal governo brasiliano, troppo spesso inconsapevole delle proprie responsabilità verso i propri cittadini, come dimostrano le misure adottate per fronteggiare la pandemia, e fin troppo accondiscendente nei confronti delle grandi industrie.