Cala il consenso negli Usa: quanto può durare la guerra di Zelensky?

di Dario Rivolta * –

Film e libri di fantascienza raccontano di macchine inventate dall’uomo che si ribellano, assumono un atteggiamento indipendente e sfuggono totalmente ad ogni controllo arrivando perfino ad essere pericolose per i loro stessi creatori. Anche prescindendo dalla fantasia, abbiamo visto nella storia umana casi di personaggi politici costruiti a tavolino da poteri forti (che si mantengono comunque dietro le quinte) che poi, abbacinati da ciò che sono diventati, sfuggono al controllo dei loro “padroni” e si illudono ed agiscono come se non avessero più bisogno di chi li ha creati più o meno dal nulla.
Nel passato ormai lontano un caso di questo genere fu probabilmente quello di Masaniello durante la “rivoluzione” napoletana. Attualmente, un esempio calzante di un tale comportamento lo possiamo trovare nel presidente ucraino Zelensky.
Creato dal nulla da pseudo-strateghi americani con la complicità di qualche oligarca ucraino, il personaggio si è talmente immedesimato nel ruolo assunto da illudersi di avere una volontà propria e addirittura di pensare di poter dettare le condizioni a chicchessia. È ovvio che se i suoi stessi manovratori iniziali lo smentissero finirebbero con lo svelare tutto il meccanismo originario e quindi devono, almeno per ora, far buon viso a cattiva sorte. È per continuare nella farsa, seppur a denti stretti, che a Washington si continua a ripetere che “solo l’Ucraina può decidere del suo futuro”. In realtà tutti sanno che le cose non stanno esattamente così perché se gli americani decidessero di interrompere gli aiuti, i britannici non potrebbero che seguire, e polacchi e lituani da soli non basterebbero a nulla. Di conseguenza, se ciò avvenisse “il re si troverebbe nudo” e non avrebbe più alcun futuro.
Negli Stati Uniti sono sempre più i politici che cominciano a guardare con insofferenza la continua elargizione di denaro e l’invio di armi sempre più sofisticate per aiutare la ex marionetta che crede di avere spiccato il volo. Il famoso Istituto Rand (quello che già molti anni or sono aveva ipotizzato la necessità di indebolire la Russia con ogni mezzo) ha elaborato uno studio che sostiene che, poiché la vittoria di Kiev sulla Russia è improbabile, il protrarsi del conflitto sviluppa probabilità sempre maggiori di sfociare in uno scontro atomico. Anche nell’opinione pubblica statunitense il sostegno all’Ucraina sembra cominciare a venire meno. Secondo un sondaggio dell’Istituto americano Pew, la percentuale di chi ritiene che gli aiuti all’Ucraina siano eccessivi è aumentata di circa quattro volte mentre coloro che, al contrario, pensano che non siano sufficienti si è dimezzata. Tra i sostenitori del Partito Repubblicano quelli che ritengono che Washington abbia fornito troppi aiuti è passata dal 9% del marzo 2022 al 40% del gennaio 2023. Tra gli elettori Democratici coloro che sostenevano la necessità di maggiori aiuti erano il 38% nel marzo scorso e sono il 23% attuale.
Ci sono buoni motivi per pensare che durante l’incontro Biden-Zelensky a Washington, il presidente americano abbia cercato di convincere quest’ultimo a intraprendere un qualche negoziato con la controparte russa ma tutto ciò che ha ottenuto è stata una dichiarazione che se ne sarebbe parlato un po’ più in là.
La Rand (1) non è all’improvviso diventata filorussa né è cambiata la strategia americana volta ad impedire una qualunque forma di collaborazione stretta tra Mosca e l’Europa. Il problema identificato dagli analisti della Rand si riferisce all’ “interesse nazionale”, ai costi e agli interrogativi su “come finirà” questa guerra. Gli autori dello studio, Samuel Charap e Miranda Priebe giudicano “improbabile” e “ottimistico” lo scenario di una vittoria totale ucraina. Piuttosto: “i rischi di un ricorso al nucleare o di una guerra Russia-Nato schizzerebbero verso l’alto”. Secondo questi autori è necessario che gli Stati Uniti intervengano sul governo ucraino per rendere più probabile “una fine del conflitto a medio termine”. I due continuano sostenendo che la Russia sia già stata sufficientemente indebolita dal conflitto e che: “ci vorranno anni, forse anche decenni, prima che l’esercito e l’economia si riprendano dai danni già subiti”. Scendendo nel dettaglio, il suggerimento è che gli aiuti all’Ucraina siano vincolati alla sua disponibilità a trattare. In particolare, “se l’Ucraina non dovesse negoziare, gli Stati Uniti potrebbero diminuire gli aiuti gradualmente e non drasticamente”, magari elargendo promesse per sostegni finanziari forti e a lungo termine nel dopoguerra.
È esattamente ciò che ha sostenuto recentemente Berlusconi (e che pensa la maggior parte degli italiani. Un sondaggio ipotizza addirittura il 68 percento) venendo tuttavia attaccato e messo in ridicolo dalla maggior parte della stampa nostrana e da molti politici.
Anche in Gran Bretagna, su the Economist, è apparso un saggio di Christopher Chivvis del Carnegie Endowment for International Peace che sostiene che gli obiettivi di guerra ucraini “sono irrealistici” e invita anch’egli a ricorrere alla diplomazia.
È scontato che, salvo improbabili “sconquassi” nella dirigenza moscovita, la Russia accetti di fermare il conflitto se non verrà ufficialmente riconosciuta l’annessione di Crimea e Donbass. D’altra parte, Putin non inventa nulla quando dice che prima dell’Unione Sovietica l’Ucraina non fosse (quasi) mai esistita come Stato. La parte nord occidentale è stata per lunghi secoli territorio occupato dalla monarchia Polacco-Lituana, la parte occidentale apparteneva all’impero austro-ungarico mentre Odessa, la Crimea e l’attuale Donbass erano territori zaristi. Chi parla di intangibilità dei confini dimentica non solo il precedente del Kossovo ma anche il fatto che in Unione Sovietica si vollero espressamente creare Repubbliche composte da popolazioni con lingue (a volte anche etnie) diverse, proprio per evitare l’insorgenza di possibili nazionalismi. Non è solo il caso dell’Ucraina ma anche di molte altre realtà come il Tagikistan, la Georgia e l’Azerbaigian. Riconoscere oggi confini differenti da quelli sovietici non dovrebbe essere un dramma per nessuno.
Il vero problema, quello che tutti sanno ma fingono di non sapere, è che questa guerra non è tra la Russia e l’Ucraina, bensì tra gli Stati Uniti con i suoi vassalli e la Russia. Né gli USA né il Cremlino possono porvi termine senza, in qualche modo, sventolare una presunta vittoria. Se i russi dovessero ammettere una sconfitta sarebbe la fine politica di Putin e del suo clan, se dovessero farlo gli americani sarebbe un chiodo nella bara dell’egemonia statunitense sul mondo e, in particolare, sull’Europa.
Eppure più la guerra continua, più i costi aumentano per tutti gli Stati coinvolti, più soldati e civili da entrambe le parti ne resteranno uccisi e, come sostiene lo studio Rand, la possibilità che lo scontro si estenda e diventi atomico si fa sempre più vicina. Accettare una soluzione diplomatica è allora un doveroso e necessario sacrificio e il primo che deve essere obbligato a farlo è proprio Zelensky.

Note.
1 – Lo studio della Rand e i dati percentuali citati sono riportati da The Post Internazionale a firma Giulio Alibrandi.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.