Cina. Perché il miracolo rischia di essere un’illusuione

di Dario Rivolta * –

Se ci limitassimo a guardare i dati ufficiali rilasciati dal governo di Pechino, non potremmo che ammirare la crescita economica che il Paese ha saputo attuare. Indubbiamente, la Cina di oggi è molto più ricca e potente di quella lasciata da Mao e chiunque ci vada, per lavoro o per turismo, resta colpito dalla modernità e dall’efficienza delle infrastrutture realizzate. Anche la capacità militare, tuttora in crescita seppur ancora lontanissima da quella americana, non può che impressionare gli esperti del settore e far nascere preoccupazioni nel caso di un suo impiego. Dopo la morte di Mao e l’arrivo al potere di Deng Xsiao Ping, la parola d’ordine fu il low profile: crescere ed espandersi nel mondo ma… “con discrezione”. Hu Jintao (il predecessore di Xi Jin Ping) parlava ancora “Peaceful development” ma con Xi anche il linguaggio è cambiato e il nuovo leader ha cominciato a citare un “Peaceful rise”. Il cambiamento va ben al di là di una semplice sostituzione di parole e lo si è visto con l’aumento degli investimenti nelle forze armate e con l’espansione aggressiva nel Mar Cinese Meridionale. Oggi, al fine di assicurarsi i mercati e le vie di rifornimento, le navi cinesi pattugliano tutte le maggiori vie di transito marine mondiali e gli investimenti d’oltre mare sono quintuplicati dagli ultimi vent’anni. Il Mar Cinese Meridionale si è riempito di avamposti e anche dove non ci sono navi militari a vigilare sono centinaia i navigli pseudo-civili che entrano nelle acque territoriali altrui comportandosi da padroni.
Tutto lascerebbe pensare che la crescita della potenza cinese sia oramai inarrestabile, e soprattutto ineluttabile, ma molte nuvole si sono affacciate nel frattempo sopra i cieli del Paese del Dragone.
È risaputo che le condizioni dell’economia cinese stiano peggiorando in modo marcato dalla crisi finanziaria del 2008 a oggi. Anche stando ai dati ufficiali rilasciati dalle autorità di Pechino (dati su cui molti economisti avanzano forti dubbi invitando almeno a dimezzarli), si è passati da una crescita annua dal 15% all’attuale 6%, il tasso più basso degli ultimi trent’anni. Si tratterebbe, pur sempre, di una crescita enorme se comparata a quella degli altri Paesi sviluppati (gli USA superano a fatica il 2% e l’Italia si dibatte tra un misero 0,1 e un obiettivo dello 0,5), ma occorre ricordare che il prodotto nazionale lordo cinese deve quasi tutto agli investimenti pubblici effettuati soprattutto in infrastrutture e abitazioni. Keynes, usando un paradosso, diceva che per fare girare l’economia potrebbe essere necessario pagare dei lavoratori affinché scavino una qualunque caverna e poi pagarli ancora per riempirla. In realtà, il meccanismo sarebbe virtuoso se si trattasse di investimenti produttivi che siano poi utilizzati e contribuiscano a migliorare facilities e condizioni di vita degli abitanti. Purtroppo, finanziare ponti che non vanno da nessuna parte o costruire strade inutili o edifici altrettanto non produttivi aumenta sì la circolazione di moneta, ma anche il debito.
È il caso della Cina, il cui debito pubblico è quadruplicato in termini assoluti negli ultimi dieci anni e adesso supera il 300% del Pil. Pechino ha finanziato, direttamente o indirettamente, la nascita di cinquanta città fantasma piene di uffici vuoti, appartamenti, supermercati e aeroporti. Si stima che il 20% delle abitazioni di recente costruzione rimanga vuoto e anche la capacità produttiva delle trenta maggiori industrie eccede del 30% il potenziale assorbimento del mercato. Il numero di fallimenti delle imprese private è in costante crescita e lo stesso Governo cinese stima di avere bruciato tra il 2009 e il 2015 ben 6mila miliardi di dollari in “investimenti improduttivi”. All’inizio degli anni 2000 la Cina era autosufficiente in cibo, acqua e risorse energetiche e oggi, grazie all’aumento dei consumi e dell’industrializzazione, è fortemente deficitaria in tutti e tre ed è costretta a forti importazioni. Come non bastasse, l’ambizioso progetto delle Nuove Vie della Seta (marittima e terrestre) richiede enormi investimenti e il debito complessivo in costante crescita fa pensare a qualche analista che potrebbe essere ridimensionato, o almeno rallentato.
A tutto ciò occorre aggiungere che la politica del figlio unico sta provocando una crisi demografica che ha cominciato a diventare preoccupante. Fino alla fine degli anni ’90 c’erano otto persone in età di lavoro per ogni cittadino di oltre 65 anni. Attualmente i demografi stimano che nel corso dei prossimi trent’anni verranno meno circa 200 milioni di persone in età lavorativa (e quindi anche giovani consumatori) mentre cresceranno di 300 milioni i senior. Sul piano della politica interna l’allora premier Wen Jiabao aveva già avvertito che il modello di crescita cinese era “instabile, sbilanciato, non coordinato e insostenibile”. Anche Xi, in diversi discorsi, ha messo in guardia i membri del partito da un potenziale collasso in stile sovietico. Il calo della crescita e il forte indebitamento possono diventare forieri di malcontento popolare a causa delle crescenti aspettative via via deluse e per far fronte a questa prospettiva o cercare di prevenirla il governo ha raddoppiato negli ultimi dieci anni le spese dedicate alla sicurezza interna. Contemporaneamente, ha dato vita a una forte campagna nazionalistica, ha aumentato la censura, imprigionato in campi di concentramento un milione di Uiguri e attribuito allo stesso Xi i poteri di un dittatore a vita.
Tuttavia ciò sembra non bastare: in varie zone dell’immenso territorio le proteste di lavoratori e di comuni cittadini sono in aumento e ciò lascia presagire altri atti repressivi da parte del governo.
Davanti ad una situazione critica di questo genere è possibile che succeda alla Cina quello che è accaduto in precedenza in altri Paesi. Tutte le società reduci di una grande crescita economica arrestatasi più o meno improvvisamente hanno visto frustrate le attese di chi aveva visto altri migliorare le proprie condizioni di vita e teme di non essere in grado di fare altrettanto. Conseguenza: aumento del malcontento diffuso e dei disordini sociali. Successe anche agli Stati Uniti alla fine dell’800. In quel caso, la pur democratica America reagì sopprimendo con violenza gli scioperi e le proteste, aumentando contemporaneamente gli investimenti e le esportazioni e annettendo territori in America Latina e nei Paesi dell’Oceano Pacifico per garantirsi, forzosamente, nuovi sbocchi per le proprie merci e assicurarsi i rifornimenti di materie prime.
Il rischio che il mondo corre oggi è che uno Stato di ben un miliardo e trecento milioni di persone si comporti allo stesso modo e le mosse aggressive di Pechino, sia all’interno sia all’estero, sembrano confermarlo. E’ vero che in un periodo di globalizzazione dei mercati la proiezione commerciale all’estero potrebbe avvenire in maniera pacifica, ma il periodo di grande aumento degli scambi internazionali sembra sia passato e la tendenza va verso la contrazione degli stessi. Ovunque si vede il rinascere di desideri protezionisti ed è aumentata la diffidenza suscitata dagli investimenti e dalle manovre espansive cinesi. Non si può allora escludere che Pechino ritenga di dover ricorrere a metodi più assertivi.
Il rischio per noi europei è grande. Se la Cina riuscirà a superare pacificamente la crisi che la sta toccando in questi anni e che sembra destinata a durare per almeno un altro decennio, dovremo abituarci a fare i conti con una cultura dominante nuova, ammirevole ed eccezionale per certi aspetti ma storicamente restia a compromessi con altre culture. Se invece la situazione interna cinese dovesse peggiorare, le ipotesi potrebbero essere due. Nel caso il potere politico centralistico del Partito Comunista Cinese riuscisse a mantenersi forte e compatto, sarà predisposto a garantirsi la stabilità economica e sociale interna accentuando i toni aggressivi e nazionalisti verso l’estero, anche a costo di affrontare scontri e nuove guerre. Al contrario, dovesse verificarsi un crollo dell’intero sistema potrebbero crearsi le condizioni di una possibile guerra civile con una diffusa povertà di ritorno. Ci troveremmo allora decine di milioni di cinesi che fuggono dal loro Paese e si disperdono un po’ ovunque nel mondo provocando, a causa del loro ingente numero e della loro difficoltà ad integrarsi, instabilità e conflitti nelle società che li accoglieranno.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.