Cina rallenta crescita, punta su qualità più che su quantità

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imageLa Cina sta cambiando. E si tratta di un cambiamento che, sul fronte economico, implica una minore velocità nella crescita, perché la scelta di Pechino è stata quella di puntare sulla qualità e non più sulla quantità. E’ questo quanto emerge dal rapporto “La Cina nel 2016”, redatto dal Centro studi per l’impresa della Fondazione Italia-Cina (Cesif) e presentato oggi al Ministero degli Esteri a Roma.
“Eravamo abituati a una crescita a due cifre, che è calata anche perché le autorità cinesi hanno preferito continuare con il progresso, ma su ritmi meno elevati. Dall’Occidente abbiamo visto dei traballamenti della Borsa e abbiamo pensato a una crisi”, ha spiegato Cesare Romiti, presidente della Fondazione Italia-Cina. “In Cina – ha aggiunto – le autorità fanno piani quinquennali preventivi che si rilevano sempre aderenti alla realtà. Si tratta della serietà con cui il Paese guarda al proprio futuro e alle proprie attività ed è esempio da seguire. La Cina è ben lungi da aver esaurito le sue possibilità”.
Il prodotto interno lordo cinese è sceso al di sotto del 7 per cento lo scorso anno e nel XIII Piano quinquennale, recentemente approvato, l’obiettivo è quello di tenerlo in media al 6,5 per cento entro il 2020. E’ questo il “New Normal”, la nuova normalità promossa dalla presidenza Xi Jinping. “Ha scelto di puntare più sulla qualità che sulla quantità”, ha precisato Alberto Rossi, analista del Cesif. Pechino ha deciso di prendere di petto l’economia, puntando su innovazione e sostenibilità e questo indirizzo può essere individuato anche nei dati: nel 2015 la spesa per ricerca e sviluppo ha raggiunto il 2,1 per cento sul Pil. Dieci anni fa era l’1,4 per cento e nel 2000 lo 0,9 per cento.
Pechino, insomma, punta su un aumento del valore aggiunto della propria produzione, avendo un obiettivo che viene definito i “due 100”: la trasformazione in una società mediamente benestante entro i 100 anni dalla nascita del Partito comunista cinese (1921) e lo status di paese pienamente sviluppato entro i 100 anni dalla fondazione della Repubblica popolare cinese (1949). Questo passando attraverso un piano di incremento dell’innovazione che ha come orizzonte il 2020.
Questo ambizioso progetto ha come base la trasformazione profonda che sta attraversando la società e l’economia del Paese più popoloso del mondo. E’ in corso un’urbanizzazione fortissima, che porta la Cina ad avere 143 città con più di un milione di abitanti, comprese alcune megalopoli tra le più grandi del mondo: Pechino, Shanghai, Canton, Chongching. Lo sviluppo di una classe media urbanizzata sospinge i consumi interni. “I consumi – ha spiegato Rossi – contano per i due terzi del Pil: è una novità storica”. Cioè quella cinese è ormai sempre meno un’economia orientata all’export e va sempre meno considerata l’officina del mondo: col suo miliardo e 400 milioni di abitanti è sempre più un grande mercato. Xi ha definito gli scopi della sua strategia del cosiddetto “Sogno cinese” ponendo come obiettivo il raddoppio del Pil pro capite del 2010 entro il 2020. E ha stabilito che la Cina deve sempre più sviluppare il suo settore terziario: la quota dei servizi nel 2015 ha superato la metà del Pil cinese, raggiungendo il 50,5 per cento.
In questo senso va segnalato anche il rapido sviluppo dell’e-commerce: nel 2015 oltre il 50 per cento dei cinesi aveva l’accesso a internet, con una forte propensione agli acquisti in rete. Tra la’ltro, il 90 per cento di questi acquisti avviene attraverso smartphone, in mobilità. Inoltre va sottolineato il fatto che il settore sanitario, anche a causa dell’andamento demografico orientato a un rapido invecchiamento della popolazione, è un forte crescita e lo sarà sempre più. Mentre sono in aumento i salari e i costi aziendali della produzione, anche per le compagnie straniere che hanno investito nel paese e che ora si stanno spostando dalle aree costiere a quelle più interne o se ne vanno verso i paesi del Sudest asiatico.
La Cina sta cercando, da questo punto di vista, una connessione più stretta con quello che c’è al suo Ovest. La strategia “One Belt, One Road” (Una cintura, una via) richiama le antiche vie della seta e promuove una cooperazione con i paesi euroasiatici avendo in mente una sempre maggiore intgrazione economica e infrastrutturale.
Di fronte a questa profonda trasformazione, l’Italia ha bisogno di “fare decisamente di più”, ha spiegato Elisabetta Belloni, segretario generale della Farnesina, ricordando che la Cina è il terzo fornitore in assoluto per l’Italia e l’Italia il secondo fornitore europeo della Cina.
L’export italiano verso la Cina è stato nel 2015 di oltre 2,4 miliardi di dollari in meno rispetto al 2014, l’import è calato di circa un miliardo di dollari, con un disavanzo della bilancia commerciale aumentato di quasi 11 miliardi di dollari. In tutto l’interscambio commerciale è stato di 44,71 miliardi di dollari, con un calo 6,93 per cento. In questo senso, ha sottolineato il direttore generale per la promozione del sistema paese del Ministero degli Esteri Vincenzo De Luca, è necessaria “una strategia Cina”. Per quanto, “dopo un lungo periodo di discontinuità” nei rapporti, negli ultimi anni ci sia stato un maggiore interscambio anche a livello istituzionale, “ancora siamo lontani da uno standard di rapporti più strutturati”.
In questo senso le perplessità europee nel riconoscere a Pechino lo status di economia di mercato rischiano di porre degli ostacoli. Ma si tratta, secondo il responsabile dell’Ufficio economico dell’Ambasciata cinese Xu Xiaofeng, di “un problema più dell’Europa che della Cina”.