La Cina scricchiola fra scioperi e rivolte popolari

di Enrico Oliari –

Nella Cina, paese che vuole occidentalizzarzi pur rimanendo orientale, essere capitalista pur restando comunista, avere uno stato sociale pur fregandosene di chi non riesce a tenere il passo della modernizzazione, affiorano sempre più i vizi e le virtù tipici proprio di quell’Occidente che il dio-Mao, ora opportunamente rinchiuso in un armadio, tanto stigmatizzava.
Non si tratta solo del traffico e dell’inquinamento che attanaglia le grandi metropoli e che rende la vita invivibile ai milioni di abitanti, bensì di quell’affiorare continuo di ingiustizie sociali e di sfruttamento dei lavoratori che fa del ‘miracolo cinese’ una ciambella riuscita senza buco, un dragone rimasto senza fiamma.
Tant’è che ormai non si contano più gli scioperi, colossali come colossale è la Cina, nelle corporation che hanno delocalizzato da quelle parti, dove la manodopera costa come un caffè a Berlino e dove gli ammortizzatori sociali sono rimasti la teoria di qualche giuslavorista rinchiuso in un laogai.
Basterebbe pensare ai grattacieli costruiti con le impalcature di bambù, ai lavoratori licenziati se malati, allo straordinario obbligatorio e non pagato e ai numerosi incidenti sul lavoro per non avere a che fare con l’import da Oriente, ma, come si sa, davanti al denaro cede ogni orpello di dignità e di moralismo occidentale.
E così non si contano più gli scioperi che, nonostante i licenziamenti, si susseguono e dei quali poco arriva dalle nostre parti: i migliaia della Hitachi a Shenzhen, della Simone Limited a Hualong, della Citizen Watch & Co. a Changan, i quali hanno incrociato le braccia per l’imposizione di 5-6 ore di straordinario obbligatorio non pagato.
Tuttavia, accanto al mondo del lavoro, sembra scricchiolare anche un altro settore dell’apparato cinese, che non fa dormire notti tranquille ai burocrati di Pechino e che soprattutto rischia di essere una piccola onda che potrà travolgere come un fiume in piena l’intero Stato: la democrazia.
Non si tratta delle interminabili e numerosissime lotte etniche che di tanto in tanto riemergono, come quelle dei musulmani uighuri o dei più noti tibetani, che solo nell’ultimo anno hanno visto immolarsi con il fuoco ben 24 monaci, e neppure dei numerosissimi dissidenti che affollano le prigioni o che sono passati per le armi, spesso nel disinteresse degli ‘esportatori della pace e della democrazia’ che mettono a ferro e fuoco il Medio Oriente.
Si tratta di vere e proprie rivolte popolari, a volte fermate (grazie all’esercito) sul nascere, ma altre volte scoppiate con tutta la loro forza, come quella che ha riguardato di recente gli abitanti di Wukan, un villaggio costiero del Guangdong, dove 20.000 pescatori hanno messo in fuga i vertici locali del partito Comunista, quindi dello Stato, resistendo per giorni ai lacrimogeni ed ai cannoni ad acqua.
A guidare la rivolta è stato il 67enne Lin Zulian, occhiali grandi e fisico esile, il quale si è fatto interprete di un mal contento crescente dovuto al sequestro di terreni (fra i quali i suoi) ed all’alto tasso di corruzione, che aveva portato al potere la dirigenza amministrativa locale.
La risposta del governo centrale è stata ciò di quanto più cinese possa esistere: messa in fuga da parte degli  abitanti la nomenklatura locale, Pechino ha indetto a Wukan nuove elezioni e, nel perfetto stile del ‘promoveatur ut moveatur’, ha appoggiato l’elezione a segretario del partito Comunista locale proprio di quel Lin Zulian, che, uscito misteriosamente sui media di tutto il mondo, era diventato imbarazzante.
E così, con un colpo al cerchio ed uno alla botte, continua l’enigma dell’evoluzione cinese, una parabola di cui se ne conosce l’origine, ma della quale non si conosce il punto di incidenza.