Clima. Poche aspettative da COP24, ‘Promesse non sono azioni’

di C. Alessandro Mauceri – 

Mentre fervono i lavori in vista della prossima COP 24, la Conferenza sul cambiamento climatico dell’United Nations framework convention on climate change (Unfccc) che si terrà a dicembre, non sembra interrompersi il dibattito sull’ambiente e sulle conseguenze di alcune scelte geopolitiche a livello globale.
Il 4 settembre scorso i rappresentati di gran parte dei paesi del pianeta si sono incontrati in Thailandia. A Bangkok, proprio il rappresentante del governo delle Fiji, paese che ha ospitato i lavori della COP23 lo scorso anno (che si sono tenuti però a Berlino), ha avanzato pesanti accuse. Il presidente delle Isole Fiji, Josaia Voreqe Bainimarama, ha ricordato ai presenti che scopo degli incontri del 2018 sarà “Concordare le linee guida di implementazione che permettano di fare qualcosa di concreto dopo i fallimenti degli ultimi anni” a causa, prima di tutto, del passo indietro degli USA, guidati dal nuovo presidente, Donald Trump, riguardo gli impegni presi alla conferenza di Parigi dal suo predecessore, Barack Obama. “Penso che tutti sappiamo che non abbiamo fatto abbastanza progressi, motivo per cui siamo qui in quella che chiamiamo una sessione negoziale ‘aggiuntiva’”.
Quella di Bainimarama appare come una presa d’atto del fallimento totale degli impegni finora sottoscritti dai vari stati. “Stiamo discutendo da un quarto di secolo, dalla convention di Rio: da quel tempo sono state create nove nuove nazioni e abbiamo vissuto una rivoluzione digitale. Nel mentre anche il riscaldamento della terra ha accelerato e il livello dei mari ha continuato a salire. Nel nostro primo sforzo per affrontare il cambiamento climatico, sono state pronunciate decine di milioni di parole; se le nobili intenzioni di tutte le brave persone che hanno costruito questo processo dal 1992 potessero essere convertite in energia pulita, potremmo risolvere la crisi ora. Ma le promesse non sono azioni”.
Dello stesso avviso, il primo ministro delle Isole Samoa, Tuilaepa Aiono Sailele Malielegaoi, che durante una visita ufficiale in Australia ha lanciato un monito ai leader presenti: “Qualsiasi leader mondiale che negasse l’esistenza del cambiamento climatico dovrebbe essere portato in un ospedale psichiatrico”. Chiaro il riferimento a Donald Trump: il presidente statunitense da sempre rifiuta di ammettere il rapporto di causa-effetto tra le emissioni di CO2 e il riscaldamento globale. Una politica che sembra avere fatto proseliti: anche il nuovo premier australiano Scott Morrison pare essere entrato a far parte del gruppo di leader negazionisti e anche lui sembra voler cancellare gli impegni presi dall’Australia a Parigi di ridurre le emissioni di gas serra. Le accuse di Sailele sono state rivolte anche ad altre potenze mondiali come India e Cina che, insieme agli Usa, sono “i tre principali responsabili di questo disastro”.
Difficile dare torto ad entrambi questi leader: stando ai risultati pare che gli ultimi mesi i partecipanti siano stati più a far finta di non vedere i problemi esistenti che a cercare di trovare un accordo condiviso da tutti e a convincere gli scettici delle cause antropiche del riscaldamento climatico.
A dimostrarlo è il rapporto “The Carbon Loophole in Climate Policy” realizzato per Buy Clean da Ali Hasanbeigi e Cecilia Springer, di Global Efficiency Intelligence, e Dan Moran, di KGM & Associates. Il lavoro presentato è un’analisi cronologica della politica climatica dagli anni ’90 ad oggi. Dall’istituzione, nel 1992, dell’United Nations framework convention on climate change (proprio quella che organizza le COP internazionali) alla sottoscrizione, nel 1997, del Protocollo di Kyoto da parte dei primi 50 Paesi, azione che “inaugurò così formalmente l’era moderna della politica climatica internazionale, concentrandosi sui contributi nazionali per gli obiettivi di riduzione delle emissioni globali.
Ma non basta, Hasanbeigi e Moran hanno richiamato l’attenzione su un aspetto di cui in questi decenni si è parlato pochissimo: “Ciò che i negoziatori climatici degli anni ’90 non sapevano all’epoca era che una serie parallela e simultanea di accordi commerciali globali avrebbe creato un’evidente scappatoia rispetto ai loro sforzi per contenere le emissioni di biossido di carbonio, causa di parte dei cambiamenti climatici”. Da decenni, nel silenzio più totale da parte dei media, gli obblighi dei vari paesi sviluppati di rispettare i limiti nell’impatto ambientale sono disattesi grazie allo strumento della “compensazione”: in poche parole, i paesi più industrializzati e quelli in via di sviluppo hanno continuato ad emettere sostanze inquinanti ben al di sopra dei limiti sottoscritti negli accordi internazionali in cambio di aiuti a paesi sottosviluppati i quali, per contro, hanno accettato di emettere molto meno di quanto sarebbe stato possibile grazie agli accordi per l’ambiente. La promessa di prosperità e modernità per centinaia di milioni di persone, ma soprattutto la crescita esponenziale della ricchezza di pochi sono state quindi raggiunte in cambio di “un’impennata delle emissioni di carbonio che continua a perseguitare i sostenitori della politica climatica”.
Inoltre, secondo i ricercatori, “in molti casi, i paesi che hanno chiesto riduzioni nette delle emissioni di carbonio vedono queste riduzioni completamente o per lo più spazzate via quando viene presa in considerazione la scappatoia del carbonio. La tendenza generale è che i paesi ad alto reddito e consumo elevato (Stati Uniti, Europa, Giappone, Australia ecc.) hanno obiettivi dell’Accordo di Parigi calibrati sulle loro emissioni nazionali, mentre le loro impronte di carbonio reali sono molto più grandi”.
Secondo il rapporto Closing Europe’s Carbon Loophole, “quando vengono incluse le merci importate, le emissioni dell’Ue sono sostanzialmente rimaste allo stesso livello dal 1990”. “Le emissioni basate sul consumo in tutta l’Ue superano ora quelle totali calcolate sulla produzione del 25-30%; in alcune nazioni, la crescita delle emissioni valutate sul consumo è sostanzialmente più alta che in altre”. Ai primi posti della classifica in base alla quantità di emissioni assolute e relative importate attraverso i prodotti commercializzati e i principali importatori di carbonio ci sono la Germania, il Regno Unito, la Francia, l’Italia e la Spagna. “Sono i governi i principali agenti di acquisto. Gestiscono flotte, costruiscono scuole e edifici e commissionano importanti progetti che utilizzano grandi quantità di acciaio, cemento e altri prodotti ad alta intensità di carbonio. Quando i governi fanno del ‘comprare pulito’ una questione di politica, possono avere un impatto reale nel chiudere la scappatoia di carbonio”.
L’incremento della quantità di anidride carbonica in atmosfera potrebbe avere effetti molto peggiori di quanto finora previsto sul futuro del pianeta. Un recente studio pubblicato sulla rivista Nature Climate Change e realizzato da ricercatori della Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston e della Harvard University Center for the Environment (Massachusetts) ha dimostrato che esiste un legame tra le emissioni di biossido di carbonio e le percentuali di elementi nutritivi in alcuni alimenti. Secondo i ricercatori, elevate concentrazioni di CO2 causano un calo dei livelli di ferro, proteine e zinco in ben 225 alimenti. Lo studio ha valutato inoltre le conseguenze che queste modifiche potrebbero avere sulle popolazioni di 151 paesi. Il risultato è che, poiché nei prossimi 30-80 anni le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera (vista anche la mancanza di iniziative concerete e la “compensazione” da parte di molti paesi) aumenteranno dagli attuali 400 ppm ai 550 ppm, il contenuto di proteine, ferro e zinco di molte colture principali, come grano e riso, diminuirà di una percentuale variabile tra il 3 e il 17 per cento. Un aspetto questo, che, unito all’aumento della popolazione globale non può non destare serie preoccupazioni.