Come combattere il terrorismo?

di Giovanni Ciprotti –

bruxelles candele per attentatoLunedi scorso era il 25 aprile, per gli italiani – almeno una parte di essi – la giornata della Liberazione dal nazifascismo.
Per una singolare coincidenza, nello stesso giorno a Bruxelles hanno riaperto la fermata metro di Maelbeek, devastata dall’attentato dinamitardo del 22 marzo scorso. Non una liberazione, quindi. Al massimo potrebbe essere considerato il segnale di un ritorno alla normalità, se di normalità si può parlare quando si esce di casa e si percorre il tratto che ci separa dall’ufficio o dalla scuola oppressi dal timore, se non dal terrore, che la persona che ci passa accanto si faccia, e ci faccia, saltare in aria.
Una sensazione tutt’altro che piacevole, che in Europa abbiamo provato raramente, ma che in altri luoghi non lontani, come in Israele ma non solo, conoscono purtroppo molto bene.
Il fenomeno del terrorismo non è nuovo per gli europei, ma storicamente eravamo abituati ad azioni di altro genere. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento gli obiettivi dei terroristi erano prevalentemente re oppure capi di stato o di governo. Quarant’anni fa, soprattutto in Germania e in Italia, le nostre società hanno sperimentato la crudeltà del terrorismo politico, di destra e di sinistra, che ha segnato il periodo degli “anni di piombo”. A cadere sotto i colpi dei gruppi di fuoco furono politici, magistrati, uomini delle forze dell’ordine e giornalisti, ma anche decine di vittime innocenti e inconsapevoli. Questi ultimi non erano bersagli simbolici e hanno pagato con la vita l’unica colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, nella terribile stagione stragista delle bombe nelle banche, nelle piazze e nelle stazioni ferroviarie.
L’attentato al World Trade Center, tragico spartiacque per l’Occidente, ha modificato la nostra percezione della sicurezza collettiva ed individuale e ha trasferito nelle nostre strade l’orrore che eravamo abituati ad osservare da lontano, attraverso gli schermi televisivi, e a commentare forse preoccupati o magari indignati, ma mai terrorizzati: le bombe esplodevano altrove.
La reazione dell’Occidente, in primis degli Stati Uniti, all’11 settembre non ha ridotto il pericolo di attentati nelle nostre città, come hanno provato negli anni immediatamente successivi le bombe a Madrid nel 2004 e a Londra nel 2005.
La “guerra al terrorismo” annunciata da George W. Bush e la conseguente invasione dell’Iraq ha reso ingovernabile l’intera regione mediorientale coinvolta, in preda da allora ad una guerra civile nella quale si fa fatica a distinguere il numero di fazioni in lotta e a capire gli obiettivi politici di ciascuna di esse.
L’uccisione di Osama Bin Laden da parte della forze speciali statunitensi, cinque anni fa, non ha coinciso con la sconfitta di al-Qaeda né del terrorismo di matrice islamica in generale. L’ascesa del sedicente califfo al-Bagdadi e l’affermazione “manu militari” di Daesh in Siria, Iraq e Libia hanno modificato l’assetto geopolitico della regione mediorientale e di una parte del Nordafrica. Parallelamente, le minacce rivolte all’Occidente dai capi dell’Isis hanno trovato un tragico riscontro negli attentati che, negli ultimi quindici mesi, hanno insanguinato la Francia e il Belgio (ai quali andrebbero aggiunti, al di fuori dei confini dell’Unione Europea, il Libano, la Turchia e altri paesi del Medio Oriente e del Nordafrica).
Gli errori del passato – la reazione ispirata alla National Security Strategy americana del 2002, la risposta prevalentemente militare agli attacchi subìti e le leggi speciali varate sull’onda emotiva della tragedia alle Torri Gemelle – ci hanno insegnato pochissimo. Tant’è vero che, il giorno dopo la strage di Parigi del novembre scorso, il presidente francese Hollande ha autorizzato raid aerei sul territorio siriano come rappresaglia immediata.
Eppure, è proprio questo il momento in cui occorre mantenere la lucidità e analizzare le cause alla radice dei problemi. Altrimenti il rischio è non soltanto non riuscire a individuare soluzioni efficaci e dagli esiti duraturi, ma addirittura peggiorare la situazione aggiungendo agli iniziali fattori di instabilità politica e sociale altre complicazioni indesiderate.
In un libro del 2004, “La minaccia del terrorismo”, Charles Townshend sottolineava la difficoltà nel condividere, a livello internazionale, la definizione di terrorismo, punto di partenza essenziale per lo studio del fenomeno e per la comprensione delle sue diverse manifestazioni nello spazio e nel tempo.
“Il terrorismo è catalogato sia come crimine sia come guerra; le istituzioni democratiche non sono predisposte o equipaggiate per affrontare la zona grigia occupata dal terrorismo e tutto ciò rappresenta un problema di ardua soluzione sia per le nuove democrazie sia per quelle più consolidate”.
Nel saggio l’autore metteva in guardia anche dalla purtroppo ricorrente associazione tra terrorismo e Islam.
“L’osservazione che il terrorismo è diffuso unicamente in Medio Oriente, la parte del mondo in cui l’Islam è predominante, appare eccessiva. Dopo tutto, quella stessa parte di mondo ha prodotto un movimento terroristico ebraico e, sulla scia dell’attentato di Oklahoma City – il più devastante atto terroristico prima dell’11 settembre -, sarebbe difficile negare il potenziale distruttivo del fondamentalismo cristiano nello stesso Occidente”. Avesse scritto il libro una decina di anni dopo, l’autore forse avrebbe citato anche il massacro di Utoya, in Norvegia, nel 2011.
Nella analisi c’era spazio anche per una velata critica agli obiettivi, reali quanto inconfessabili, a volte perseguiti mediante la reazione ad atti terroristici.
“Non è del tutto escluso il sospetto che la minaccia del terrorismo sia stata usata come pretesto per abbattere regimi ostili”.
Recentemente, due attenti studiosi del mondo islamico, Gilles Kepel e Olivier Roy, hanno sottolineato alcuni aspetti della forma di terrorismo di matrice islamica che negli ultimi anni ha colpito le città europee.
Olivier Roy, in una intervista pubblicata il 4 febbraio scorso sul Corriere della Sera, sosteneva che “i nuovi seguaci non sono frutto dell’estremismo islamico, bensì artefici dell’islamizzazione dell’estremismo”.
Secondo il professor Roy, i gruppi terroristici che hanno colpito nelle nostre città hanno certamente un legame con il mondo islamico e con la strategia dell’Isis, ma non sono necessariamente una diretta emanazione di Daesh:
“Il Califfato in Siria e Iraq avrà un suo decorso storico legato alle dinamiche regionali e presto potrebbe venire persino battuto. Ma i giovani nichilisti islamici europei sono a casa nostra, destinati a restare, casomai potrebbero trovare un’altra causa per cui combattere”.
Alla domanda circa eventuali precedenti storici per i nuovi jihadisti, il professor Roy cita la Banda Baader-Meinhof, ossia un gruppo terroristico sviluppatosi all’interno della società occidentale.
Il professor Gilles Kepel, subito dopo le bombe a Bruxelles, ha evidenziato due elementi: il momento di difficoltà dell’Isis (“Isis è in difficoltà da dopo gli attentati del 13 novembre. Allora tra le vittime c’erano giovani arabi, giovani musulmani. E la cosa è stata criticata anche nei circoli estremisti islamici”) e il messaggio negativo della vicenda di Salah Abdeslam ai fini di guadagnare nuovi adepti al jihad (“Per Isis il comportamento di [Salah] Abdeslam è stata una sconfitta totale. Doveva morire insieme ai suoi compagni. Avrebbe dovuto farsi saltare in aria, morire da martire della guerra santa uccidendo il maggior numero di infedeli. Invece all’ultimo minuto ha avuto paura, si è tirato indietro, è stato un vigliacco”).
Il richiamo alla banda Baader-Meinhof e il fatto che Salah Abdeslam, dopo l’arresto, si sia dichiarato disponibile a collaborare con gli inquirenti richiama alla mente alcune vicende della recente storia italiana. Nel 1980, in Italia venne arrestato Patrizio Peci, il primo “pentito” delle Brigate Rosse. A soli due anni dall’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta e dalla grave crisi istituzionale che investì lo Stato italiano, le rivelazioni di Peci consentirono di portare a termine alcune operazioni che indebolirono l’organizzazione brigatista e segnarono l’inizio del suo declino.
Non è possibile stabilire quali informazioni Abdeslam saprà e vorrà fornire agli investigatori, né quali effetti potranno avere sulla lotta alla rete terroristica di cui egli faceva parte. Molto dipenderà anche dal grado di impermeabilità che le diverse cellule hanno tra loro. Tuttavia, se è vero che la storia non si ripete mai tale e quale, non è proibito sperare che il giovane Salah possa avere la stessa importanza nella lotta al terrorismo moderno di quella avuta a suo tempo da Patrizio Peci nel debellare le colonne brigatiste.