Crisi Teheran-Washington: l’Europa dov’è?

di Giovanni Ciprotti

Non è stata una sorpresa la decisione di Donald Trump di non rinnovare le esenzioni dalle sanzioni per i Paesi, come l’Italia, che importano il petrolio iraniano. La cancellazione delle esenzioni è stata accompagnata dalla rassicurazione circa un intervento compensativo dei paesi dell’OPEC per evitare turbolenze sul mercato mondiale del greggio.
L’iniziativa di Washington non è legittima dal punto di vista del diritto internazionale: non si tratta di una misura adottata in risposta ad un’azione minacciosa dell’Iran né in applicazione di una risoluzione o un mandato delle Nazioni Unite.
A maggio del 2018 il presidente americano aveva annunciato il ritiro dall’accordo sul nucleare iraniano e ribadito che gli Stati Uniti, coerentemente con lo slogan “America first”, avrebbero seguito una linea politica svincolata da accordi e organismi internazionali per gestire il “dossier Iran”.
Dopo la parentesi dell’amministrazione Obama, durante la quale si era giunti alla firma del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA, accordo con l’Iran per la sua rinuncia a sviluppare tecnologia nucleare per scopi militari) il nuovo inquilino della Casa Bianca sembra aver riavvolto il nastro di quasi vent’anni, riprendendo l’impostazione unilateralista che fu di George Bush junior. A differenza di Bush figlio, Trump non si è ancora impegnato in campagne militari, ma nei rapporti internazionali il suo approccio appare simile: l’America decide la sua strategia con l’obiettivo di tutelare il proprio interesse nazionale e gli altri Paesi possono decidere se schierarsi a favore o contro.
Il pessimo stato dei rapporti tra Teheran e Washington affonda le sue radici principalmente nella Rivoluzione islamica del 1979, quando il ritorno in Iran dell’ayatollah Khomeini costrinse lo scià Reza Pahlavi a lasciare il paese e rifugiarsi negli Stati Uniti.
Tuttavia, i motivi di attrito tra Iran e Stati Uniti sono più datati. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, il declinante Impero britannico fu costretto ad abbandonare il presidio di diverse regioni del mondo. Il disimpegno in Grecia indusse nel 1947 gli Stati Uniti ad intervenire con ingenti aiuti economici, varando quella che sarebbe passata alla storia come “dottrina Truman”.
Un eventuale ritiro britannico dalla zona del Golfo Persico avrebbe lasciato mano libera ad altre potenze, in primis l’Unione Sovietica, nel tentare di appropriarsi della produzione iraniana di petrolio: la Guerra fredda era già scoppiata e la strategia del “contenimento” di Mosca costringeva Washington a sostenere Londra per evitare che i flussi di greggio iraniano percorressero vie indesiderate.
L’attenta presenza anglo-americana non aveva tuttavia impedito che all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso sulla poltrona di primo ministro iraniano giungesse un nazionalista, convinto che fosse necessario rivedere le relazioni commerciali tra il proprio Paese e le potenze straniere che fino a quel momento ne avevano condizionato lo sviluppo. Muhammad Mossadeq divenne Primo ministro iraniano il 28 aprile 1951 e la sua prima significativa azione fu il mancato rinnovo della concessione alla Anglo-Iranian Oil Company (una compagnia petrolifera britannica) per lo sfruttamento del petrolio iraniano.
La risposta di Londra fu il blocco navale del Golfo per impedire all’Iran di esportare il suo petrolio.
Washington, nella fase iniziale della crisi, non intervenne direttamente, anche se la sua posizione era vicina alle istanze britanniche. Con il passare dei mesi, il blocco navale si ripercosse negativamente sull’economia persiana. Il crescente e prolungato disagio della popolazione iraniana avrebbe potuto indurre Teheran a cercare appoggi presso altri Paesi e questo spinse la Gran Bretagna a ideare un piano per deporre Mossadeq. Il colpo di Stato ebbe luogo nell’agosto 1953, sotto la supervisione e il coordinamento diretto della CIA. Estromesso un primo ministro legittimamente designato ma che aveva avuto il torto di non tutelare gli interessi anglo-statunitensi, Washington operò per rafforzare il potere allo scià Reza Pahlavi, che da quel momento divenne il garante degli interessi occidentali in Iran.
Lo scià instaurò progressivamente un regime non democratico: abolì il parlamentarismo; represse duramente qualsiasi forma di opposizione; come in molti altri regimi autoritari, destinò ingenti risorse al potenziamento delle forze militari penalizzando i bisogni della popolazione. Malgrado questi tratti illiberali, fu sostenuto da Washington fino alla fine degli anni Settanta.
La già ricordata Rivoluzione islamica del 1979 rappresentò uno spartiacque nel lungo e conflittuale rapporto tra Iran e Stati Uniti. Benché fossero già presenti sentimenti anti-statunitensi originati dall’ingerenza americana nei trent’anni precedenti, l’ascesa al potere dell’ayatollah Khomeini infiammò gli animi: per il clero sciita iraniano gli USA, che avevano accolto lo scià in fuga e si erano opposti alla richiesta di estradizione di Pahlavi da parte di Teheran, erano il “grande Satana”.
La cacciata dello scià ebbe su Washington un effetto simile a quello provocato dalla fuga di Fulgencio Batista da Cuba quando Fidel Castro prese il potere nel 1959. Per gli Stati Uniti, Teheran rappresentava un Paese dichiaratamente indipendente dalle due superpotenze dell’epoca e un potenziale cattivo esempio per altri Paesi che aspirassero ad una propria autonomia.
Da allora l’Iran fu oggetto di una lunga serie di sanzioni economiche decise dagli Stati Uniti, i quali non nascosero mai il loro obiettivo di abbattere il regime teocratico di Teheran. Negli anni Ottanta finanziarono l’Iraq di Saddam Hussein, che aggredì e combatté l’Iran in una guerra durata otto anni. Paradossalmente, nello stesso periodo, mentre ufficialmente l’Iran era in cima alla lista dei regimi nemici di Washington, l’amministrazione del Presidente Ronald Reagan vendette segretamente a Teheran, via Israele, armi per costituire fondi “neri” con i quali finanziare i guerriglieri Contras che combattevano il regime comunista in Nicaragua (l’operazione violava una legge del Congresso americano).
La firma dell’accordo JCPOA nel 2015 aveva disinnescato una potenziale crisi che ruotava intorno al rischio che l’Iran potesse dotarsi di armamenti nucleari. Stando ai periodici rapporti degli ispettori, il regime di Teheran stava rispettando i termini dell’accordo. Non c’era quindi alcun motivo per sconfessare l’accordo stesso, a meno di non cambiare obiettivo e puntare sul cambio di regime, derubricando la questione nucleare.
Se fosse questo l’obiettivo principale di Trump, sarebbe in parte comprensibile la sua decisione di ricorrere alle sanzioni economiche e innalzare progressivamente il livello dello scontro diplomatico, ad esempio con la recente decisione di inserire i Guardiani della Rivoluzione iraniana nell’elenco delle organizzazioni terroristiche secondo Washington. Al di là del giudizio sul grado di pericolosità dell’Iran, è un dato di fatto che le sanzioni economiche non hanno portato a cambi di regime, come insegnano i casi di Cuba dal 1960 in poi e dell’Iraq dai primi anni Novanta all’invasione americana del 2003.
Proprio ricordando la sciagurata decisione di George W. Bush dovremmo augurarci che la comunità e la pubblica opinione internazionali riescano a evitare che gli Stati Uniti giungano ad un confronto armato con l’Iran. Uno scenario del genere era già stato preso in considerazione dall’amministrazione di Bush figlio, la cui politica estera era egemonizzata dai “neo-conservatori”, una fazione cui apparteneva John Bolton, l’attuale Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump.
Per disinnescare politiche rischiose come quelle di Donald Trump sarebbe utile che gli altri attori internazionali di peso facessero fronte comune. Oggi più che mai sarebbe utile che l’Europa parlasse con una sola voce e non si spaccasse come accadde nel 2003 ai tempi dell’invasione americana dell’Iraq. Oggi più che mai i cittadini europei dovrebbero aspirare ad un’Europa forte, unita e federale capace di incidere sullo scacchiere internazionale. È Il contrario di quello che vorrebbero tutte le forze sovraniste spuntate negli ultimi anni in molti Paesi europei.