Dal Kazakistan a Hong Kong, il giugno delle proteste

In Estremo Oriente il secondo atto della rivoluzione del 2014?

di Gianluca Vivacqua –

Il mese di giugno si è aperto nel segno delle proteste popolari in Albania e in Kazakistan. Per non parlare di Hong Kong. Ma andiamo con ordine. Se a Tirana e a Nur-Sultan (il nuovo nome di Astana, dal 23 marzo 2019) come ad Almaty i cittadini sono scesi in piazza per motivi politici, e cioè per esprimere il loro disappunto rispettivamente per una maggioranza parlamentare che ripugna e per una vittoria elettorale annunciata quanto indesiderata, nella “Catalogna estremorientale” la ribellione è stata ingenerata da motivi di ingerenza giudiziaria da parte di Pechino: un emendamento apportato a una legge per facilitare l’estradizione di criminali dall’isola nella madrepatria cinese. Tuttavia, a ben guardare, le piazze infuocate albanesi hanno più in comune con quelle di Hong Kong che con quelle cosacche: il motivo sta nel fatto che in entrambi i contesti le autorità (e gli organi di stampa che dipendono da esse) muovono un’accusa precisa ai contestatori, ed è quella di essere eterodiretti. Dall’opposizione di centrodestra al governo socialista di Rama, per quello che riguarda l’ Albania (e in fondo, più che un’accusa questa sembra piuttosto una constatazione, dal momento che il nucleo iniziale delle proteste è costituito proprio da amici e sostenitori di Lulzim Basha), mentre, in quel di Hong Kong, il dito del China Daily (l’araldo del Consiglio di Stato) è puntato su non meglio definite “potenze straniere”. Tutto lascerebbe supporre che queste presenze estranee e ingombranti si situino su latitudini occidentali.
In mezzo sta il platonico tentativo del popolo kazako (per nulla eterodiretto, ma anzi del tutto spontaneo) di cambiare la storia di elezioni presidenziali dall’esito già scritto. La maggioranza bulgara (70,1%), come si prevedeva, è andata al delfino di Nazarbayev, Tokayev, e a nulla è valso il sacrificio di un centinaio di disobbedienti civili, che si sono fatti arrestare in massa, mentre i loro concittadini affluivano alle urne.
Ma questa stagione di agitazioni, in Kazakistan come in Albania (ed è questo ciò che affratella le due esperienze di protesta), pur non essendo in uno stadio completamente aurorale, di certo ancora appare storicamente poco definibile. Ammesso che non sia effimera. A Hong Kong, invece, siamo già in una fase decisamente più matura. Si potrebbe dire anzi che le proteste di questi giorni costituiscono il possibile inizio di un secondo tempo di quella “rivoluzione degli ombrelli” che per 79 giorni, dal 26 settembre al 15 dicembre 2014, mobilitò il popolo dell’isola, guidato da giovanissimi leader, contro la riforma della legge elettorale proposta da Pechino in vista del voto amministrativo del 2017. Un trait d’union tutt’altro che simbolico tra quella rivoluzione e i disordini di piazza di oggi – anzi, una staffetta perfettamente sincronizzata – è costituito dalla condanna a circa sette anni di carcere, nell’aprile di quest’anno, di tre dei leader del movimento alla guida della rivoluzione, “Occupy Central”, per “cospirazione e incitamento a commettere disturbo dell’ordine pubblico”. Mai condanna così ritardata è giunta in realtà in un momento così opportuno e pregno di significati. E, ovviamente, di rimandi e ricollegamenti.