Dalla chiamata di Trump a Tsai Ing-Wen, all’impegno di Biden nella difesa di Taiwan

Bluff o abbandono definitivo della ‘One-China Policy’?

di F. Saverio Angiò * –

Il 22 ottobre scorso il presidente statunitense Joseph Biden ha dichiarato senza mezzi termini che, qualora la Cina attaccasse Taiwan, gli Stati Uniti interverrebbero in virtù di un impegno nella difesa dell’isola, paventando dunque la possibilità di un conflitto aperta tra i due rivali della geopolitica mondiale attuale.
La dichiarazione è inizialmente (e immediatamente) sembrata un chiaro allontanamento da un caposaldo della politica estera statunitense dai tempi dell’apertura alla Cina comunista di Mao Tse-tung, inseguita da Nixon attraverso i negoziati di Henry Kissinger.
Come contropartita per quel successo diplomatico dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale, poi segretario di stato, Washington assunse una chiara ambiguità strategica nel suo discorso circa la tensione tra i due lati dello Stretto di Taiwan.
Tale ambiguità si esplicitava nel fatto che gli Stati Uniti rispettavano il principio dell’esistenza di una sola Cina, e tuttavia si impegnavano per legge (sic), grazie al lavoro di una potente lobby pro-Taiwan al Congresso, a fornire al governo di Taipei quanto necessario per contribuire alla sua difesa.
Ciò si traduceva in ampie forniture militari e una constante presenza nello scacchiere navale e terrestre a ridosso della Cina continentale.
Le parole di Biden parrebbero invece una netta presa di posizione che contribuirebbe a chiarire quelle zone grigie nei rapporti sino-statunitensi, presenti da almeno 50 anni, facendo pendere definitivamente l’ago della bilancia verso un supporto attivo a favore di Taiwan senza se e senza ma in caso di conflitto.
Ciononostante, con successive precisazioni, la Casa Bianca ha ribadito una sostanziale continuità della politica estera verso la regione, senza entrare nel dettaglio dell’eventuale portata di azioni di sostegno o meno in caso di escalation tra Pechino e Taipei.
Nonostante la preoccupazione suscitata dalle parole di Biden, forse poco prudenti dal punto di vista diplomatica, l’attuale presidente degli USA non è stato di certo l’unico a esprimersi in modo poco conciliante nei confronti delle pretese di Pechino sui dirimpettai al di là dello Stretto.
Il suo predecessore, Donald Trump, il 2 dicembre 2016, meno di un mese dopo essere stato eletto, e ancora in veste di presidente designato (il giuramento sarebbe avvenuto a gennaio 2017) con una chiamata intercontinentale distrusse uno dei pilastri della politica estera di Washington. Trump infatti intrattenne una conversazione telefonica con Tsai Ing-Wen, presidente della Repubblica di Cina (o ROC, Republic of China, ovvero Taiwan), un’entità statale la cui esistenza gli Stati Uniti non riconoscono ufficialmente nè vi intrattengono relazioni diplomatiche (esiste solamente un ufficio di liaison tra i due paesi).
Il gesto di Trump suscitò stupore nei circuiti della diplomazia internazionale, oltreché evidenti, nonché scontate, reazioni negative di censura da parte di Pechino.
La telefonata sembrò anche allora rappresentare la sovversione della “One-China Policy”, pilastro della politica statunitense nei confronti dei comunisti cinesi.
Infatti la Repubblica Popolare Cinese (RPC) ottenne il riconoscimento ufficiale da Washington in una delle più importanti manovre di realpolitik della Guerra Fredda: l’apertura americana alla Cina comunista, processo iniziato dall’amministrazione Nixon prima e, poi, proseguito con Ford e conclusosi con Carter.
Dal 1979 gli Stati Uniti non riconobbero più la legittimità internazionale della ROC, entità ritenuta fino ad allora l’unico stato legalmente da considerarsi come “Cina”, ma temporalmente rifugiatasi sull’isola di Taiwan, dopo la sconfitta subita alla fine degli anni Quaranta per mano dei comunisti di Mao Tse-tung.
Il riavvicinamento con il Grande Timoniere fu il risultato dei negoziati di Henry Kissinger che, come consigliere per la sicurezza nazionale, che aveva pazientemente aperto la strada dalla fine degli anni ’60 con colloqui segreti per propiziare una visita di Nixon nel paese comunista, avvenuta poi nel 1972. Il processo tuttavia richiese in totale un decennio per produrre un cambiamento storico: nel 1979, gli Stati Uniti di Carter riconobbero la Repubblica Popolare Cinese guidata allora da Deng Xiao-Ping come un’entità legittima e, attuando la cosiddetta politica di “un’unica Cina”, privarono Taiwan della sua legittimità, trasformandola automaticamente in un paria della comunità internazionale, ovvero in quella che Pechino amava – e ama – definire come “provincia ribelle” da riconquistare.
L’interpretazione della RPC, infatti, era e continua a essere quella secondo la quale l’esistenza di un governo che si proclama come l’unico legittimato a guidare la Cina è, in realtà, una “questione interna” per la quale solo Pechino può trovare una soluzione, eliminando così la possibilità di qualsiasi ingerenza da parte di qualsivoglia attore esterno.
Tuttavia un legame storico non ha mai cessato di esistere tra il Partito Nazionalista di Taiwan (Kuomintang, KMT) e alcuni settori del Partito Repubblicano degli Stati Uniti (noto come “lobby taiwanese”), che, oggi come allora, si oppongono all’abbandono dell’isola al peggiore dei suoi destini (ovvero, una potenziale riconquista a opera della Cina comunista a seguito di conflitto armato).
Possono le chiamate transpacifiche o e dichiarazioni bellicose degli inquilini della Casa Bianca essere indizi dell’inizio della fine del “principio di una sola Cina “, pilastro della politica estera in Asia-Pacifico di Washington, rispettato per cinque decenni?
L’apertura alla Cina si è tradotta nell’abbandono di Taiwan, forse l’apertura a Taiwan – se la telefonata tra Trump e Tsai Ing-Wen e i proclami di Biden rappresentano un segnale in tal senso – potrebbe essere interpretata come un tentativo di invertire il processo e “avvisare” la Cina, già in allerta per le iniziative di Washington e alleati per contrarrestarne le iniziative commerciali (leggasi, nuova via della seta) e ridimensionarne le ambizioni geopolitiche nell’Indo-Pacifico (alleanze AUKUS e QUAD).
Nonostante possano essere bollate come ingenuità diplomatiche, le azioni di Trump prima e, poi, Biden potrebbero non essere così scapestrate e istintive.
Chiaramente, il peso geopolitico ed economico di Taiwan non è paragonabile a quello della Cina continentale e dichiarazioni poco ponderate o gesti simbolici potrebbero esporre gli USA a un rischio strategico (Xi Jin-ping potrebbero voler mettere alla prova le reali intenzioni statunitensi con un’escalation nello Stretto).
Tuttavia, la sottile minaccia che, a partire dal 2017, con Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti diano priorità a rinnovate relazioni con Taipei, potrebbe spingere i leader di Pechino a non mettere in discussione gli equilibri del vicinato, né a opporsi agli interessi di Washington e i suoi alleati, sia in termini geostrategici che a livello economico commerciale.

* Dottore in Sicurezza Internazionale. Docente a contratto Master Analista del Medio Oriente, Università Nicoló Cusano.