Dall’Italia al Canada: la nuova frontiera nel trattamento dell’autismo attraverso la ionorisonanza

a cura di Massimo Gabbani

Nel panorama della ricerca medica, una recente sperimentazione condotta su bambini con disturbo dello spettro autistico (ASD) sta aprendo nuove prospettive. Lo studio, intitolato “Effects of Extremely Low-Frequency Electromagnetic Field Treatment on ASD Symptoms in Children: A Pilot Study”, esplora l’applicazione di campi elettromagnetici a bassissima frequenza come possibile trattamento innovativo per alleviare i sintomi dell’autismo.
In questa intervista abbiamo parlato con il dottor Alessandro Greco, medico coinvolto nello studio.
Gli altri componenti del team sono Kierra Pietramala, Alberto Garoli e Danielle Roblin, medici che insieme hanno collaborato a questa straordinaria ricerca. Il loro lavoro rappresenta un punto di incontro tra l’innovazione scientifica italiana e canadese, offrendo nuove speranze a famiglie e pazienti.

– Cosa vi ha spinto a indagare sull’efficacia dei campi elettromagnetici a bassissima frequenza (ELF-EMF) nel trattamento dei sintomi dell’autismo nei bambini? Potete spiegare perché avete scelto di utilizzare il dispositivo SEQEX per questa ricerca?
“Più di 15 anni fa il dottor Crescentini aveva avuto modo di provare come il trattamento di ionorisonanza generasse effetti positivi sui bambini affetti da disturbo dello spettro autistico. Una piccola ma significativa esperienza. Da questo punto sono partito 10 anni fa a proporre uno studio che confermasse questa esperienza qui in Italia in alcuni centri sparsi sul territorio, ma senza successo. Nel 2019, poi, grazie a una collaborazione in Canada, la proprietaria del “Leaps and Bound”, anche per motivi personali, ha voluto intraprendere una collaborazione per sviluppare questa ricerca preliminare. Abbiamo scelto SEQEX soprattutto per la versatilità del dispositivo, che ci permetteva di parametrare nel dettaglio le caratteristiche del campo elettromagnetico da utilizzare”.

– Quali sono stati i criteri principali per selezionare i partecipanti? Come avete sviluppato il protocollo di 15 settimane e perché avete optato per questo periodo di tempo? Avete riscontrato difficoltà nell’applicazione dei trattamenti, ad esempio nella collaborazione dei bambini o dei genitori?
“Ovviamente i criteri di inclusione riguardavano la diagnosi confermata di disturbo dello spettro autistico e una specifica fascia di età, che ci permettesse di analizzare in maniera omogenea i partecipanti.
Il protocollo di 15 settimane è stato sviluppato con 2 scopi: in primis quello di abituare gentilmente il bambino con disturbo dello spettro autistico a un dispositivo per lui estraneo, in secundis quello di ridurre al minimo il rischio di eventi che il bambino o la famiglia potevano leggere in chiave negativa. Nello studio di Crescentini, i trattamenti ravvicinati avevano generato un temporaneo ed iniziale aumento dello stato di agitazione e qualche disturbo gastroenterico, che poi regredivano nel giro di pochissimi giorni per dare spazio agli effetti positivi. Con il protocollo di 15 settimane, questo aspetto non si è presentato. Inoltre, l’introduzione lenta all’uso ha permesso ai bambini trattati di familiarizzare con i dispositivi, tanto da riuscire poi a dormirci su la notte”
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– I miglioramenti osservati nel linguaggio e nei comportamenti dei bambini erano attesi o hanno superato le vostre aspettative? Potete approfondire come avete escluso che i risultati fossero dovuti a normali progressi legati all’età?Ci sono stati miglioramenti specifici che vi hanno sorpreso, ad esempio quelli relativi ai disturbi del sonno?
“Personalmente mi aspettavo dei miglioramenti, data l’esperienza di tanti colleghi in questo ambito. A noi serviva un primo passo di conferma con rigore scientifico di stare andando nella giusta direzione. E direi che l’abbiamo ottenuto. Il fatto poi che i risultati siano stati ottenuti in tempi relativamente brevi e con degli stacchi rispetto alla situazione precedente il protocollo evidenti, direi che già di per sé può far escludere bias legati a un miglioramento fisiologico, dati anche dal fatto che null’altro nella quotidianità di questi bambini è stato cambiato durante tutto il periodo dello studio.
Gli effetti sul sonno sono quelli che più di tutti ci hanno incuriosito, tanto che stiamo vagliando, con il dottor Garoli, la possibilità di effettuare uno studio mediante polisonnografia di questa tipologia di paziente. Il sonno è centrale per la salute dell’intero organismo, e ovviamente soprattutto per il cervello; una sua normalizzazione implica un effetto profondo a livello del sistema nervoso che non può essere casuale”
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– In che modo il trattamento ELF-EMF modula la risposta infiammatoria e quali sono i principali marcatori biologici che avete osservato? Potreste spiegare come i miglioramenti nei parametri infiammatori potrebbero essere collegati ai progressi cognitivi e comportamentali?
“In questa ricerca non ci siamo focalizzati su markers biochimici, ma solo sulla performance. È chiaro tuttavia che, dati i risultati ottenuti, abbiamo iniziato a proporre delle inferenze che riguardano anche un coinvolgimento dello stato infiammatorio, come uno dei target su cui la ionorisonanza ha agito. Tuttavia questo aspetto richiedere molto scrupolo e meticolosità per essere affrontato, quindi è necessario approfondire questo punto con studi ad hoc”.

– Quali sono le principali implicazioni cliniche che derivano da questo studio per il trattamento dell’autismo? Pensate che il trattamento ELF-EMF possa essere utilizzato in combinazione con altri interventi, come la terapia comportamentale o le terapie farmacologiche?
“Il trattamento con ionorisonanza è per definizione un trattamento di medicina integrata e in quanto tale, quindi, integrabile. Anzi sarebbe sciocco non integrare, soprattutto in questa tipologia di pazienti. Il grande punto a favore di questo tipo combinato di trattamenti è la possibilità, per le famiglie, di trattare proprio al domicilio e con estrema facilità questi bambini, sfruttando anche le ore notturne”.

– Considerate la dimensione del campione una limitazione significativa? In che modo pensate di affrontare questa criticità nei futuri studi? Come giudicate l’affidabilità delle valutazioni fornite dai genitori rispetto a quelle dei terapeuti? Ritenete che i risultati possano essere replicati su una popolazione più ampia e diversificata?
“Dobbiamo forzatamente andare nella direzione di un ampliamento e affinamento della ricerca, sia per quanto riguarda quantitativamente la popolazione coinvolta, sia qualitativamente per la modalità di ricerca. Di sicuro il prossimo step è un arruolamento più corposo e un rigido protocollo randomizzato e in doppio cieco.
Credo, però, che la prossima ricerca non debba focalizzarsi sulla conferma dei dati ottenuti, quanto cercare di esplorare e porre una prima e seria risposta alla domanda delle domande: perché? Cosa succede nel cervello del bambino con disturbo dello spettro autistico quando è su SEQEX? E al suo sistema nervoso autonomo? Ci sono delle aree più ricettive di altre? A specifiche frequenze?
Credo sia necessario un cambio di passo: non è più, almeno per me, galileinamente parlando di “si muove oppure no?” ma di “perché e come si muove?”. Per fare un parallelismo appunto con Galileo: il suo passo lo abbiamo fatto, ora serve quello di Newton che spieghi il perché.
Per questo motivo è in previsione di continuare la ricerca in Canada e cercare colleghi interessati anche in altri stati, per dare vita a un progetto multicentrico”
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– Avete in mente di esplorare ulteriori applicazioni dei campi elettromagnetici in altri ambiti della neuropsichiatria?
“Personalmente ho in mente di esplorare le applicazioni della ionorisonanza in ogni ambito medico, medico-veterinario e botanico in cui mi sarà permesso farlo. La vita senza elettromagnetismo non è possibile; non vedo quindi perché non sfruttare questa dualità a nostro vantaggio”.

– Ci sono stati momenti particolarmente significativi o emozionanti durante la conduzione dello studio che volete condividere? Qual è stato il feedback dei genitori dei bambini coinvolti nello studio?
“Non avendo vissuto “sul campo” lo studio, ma vivendo quindi sul riferito, devo necessariamente citare l’emozione e l’orgoglio delle neuropsicologhe canadesi che hanno collaborato. La felicità che traspirava nel raccontarci degli aneddoti durante le settimane di trattamento, quando si iniziavano a vedere i primi risultati. E poi la speranza rinascere nei genitori, che spesso vivono una solitudine enorme legata alla malattia di quanto più caro hanno: il loro figlio”.