Donald Trump Jr.: l’altro Bannon

L’uomo dell’accordo con i russi e della “guerra totale” dopo Usa 2020.

di Gianluca Vivacqua

“Fredo”, lo chiamava con sprezzante ironia Steve Bannon, alludendo a un personaggio del Padrino. È uno dei tanti aneddoti raccolti da Michael Wolff in Fuoco e furia. In privato Bannon si divertiva a fabbricare visioni deformanti della famiglia Trump, in cui i membri di essa erano accostati a quelli di una dinastia di mafia. Ma appare evidente che il parallelo bannoniano non c’entra con l’anzianità: Donald Trump jr. infatti, per tutti Don, non è il secondogenito del “boss”, ma il primo figlio. Dunque sarebbe più come Sonny Corleone. Piuttosto l’ex guru della Casa Bianca interpretava con quella definizione quello che era il modo di vedere dello stesso Trump: è ancora Wolff infatti a scrivere che il bilionario aveva sempre considerato Ivanka (la secondogenita) come la figlia più intelligente, mentre vedeva i suoi primi due figli maschi, Don appunto ed Eric, un gradino sotto di lei. Proprio per questo per molto tempo aveva preferito tenerli lontani da responsabilità decisionali e occuparli con ruoli di ordinaria amministrazione nella sua azienda, la Trump Organization. Eppure, dice sempre Wolff, a dispetto delle attese sia Don che Eric riuscirono a diventare discreti manager. Al contrario del Fredo del Padrino che, ritenuto negato per gli affari paterni, si allontanò irreversibilmente da essi e, lontano da casa dalla famiglia, sarebbe poi morto, ucciso da un sicario del fratello minore Michael. Gli accadde infatti di entrare in contrasto con quest’ultimo e di allearsi con un suo nemico che, per poco, non lo uccise: perciò doveva pagare.
Battutine bannoniane a parte, quella di Don e di Eric è tutt’altra storia. Quando Trump iniziò la sua campagna per farsi eleggere alla presidenza Usa Don era amministratore fiduciario e vicepresidente esecutivo della Trump Organization, carica quest’ultima condivisa proprio con Eric e con Ivanka. Egli poi assunse sin dall’inizio una posizione di primo piano nel comitato elettorale del padre. Fu lui, cacciatore per passione, a procacciare fondi e aiuti per la campagna. A lui si devono i finanziamenti sauditi per la campagna del padre e soprattutto quello che secondo molti sarebbe stato l’appuntamento decisivo per le sorti delle presidenziali del 2016: l’incontro con i russi, alla Trump Tower di New York, il 9 giugno di quell’anno. Proprio in quella sede, in base ad alcune ricostruzioni, gli incaricati di Mosca avrebbero consegnato agli uomini di Trump il materiale compromettente sulla Clinton e con esso la vittoria alle elezioni. Parallelamente Don aprì anche il canale WikiLeaks. Secondo Wolff, della delegazione trumpiana che incontrò i russi facevano parte, oltre al figlio del candidato, anche Paul Manafort, altro responsabile della campagna, e Jared Kushner, il genero di Trump che aspirava a diventare primo consigliere del futuro presidente. Questo triumvirato si era formato per far fuori Corey Lewandowski, fino a quel momento il vero cervello della macchina elettorale di Trump, insieme a Bannon. Nessuno dei tre, infatti, voleva che egli restasse al suo posto, col potere che aveva in quel momento e con una prospettiva di maggior potere per il futuro (si sapeva che Trump, che lo aveva cooptato nel suo team nonostante i vari insuccessi in curriculum, lo trattava quasi come un figlio). Fu sempre questo triumvirato a gestire il vertice con i russi, che si configurò quindi anche come un tavolo per spuntare un accordo che garantisse maggior potere a tutti e tre. In realtà se è vero che, dopo quel 9 giugno, la posizione di Manafort e di Kushner nel team di Trump si rafforzò, non sembra si possa dire la stessa cosa anche per Don. Finita la transizione, in cui non mancò di far sentire la sua voce su alcune scelte per il governo (fu lui a suggerire al padre la nomina di Ryan Zinke a segretario agli Interni), egli tornò a fare in pratica quello che faceva prima, eclissato nel frattempo dal peso crescente di Kushner e della moglie Ivanka.
Non è neanche corretto affermare che sia sparito dai radar fino alle elezioni di medio termine del 2018, quando lo ritroviamo a raccogliere fondi per alcuni candidati repubblicani. Al contrario, in una fase bannoniana ormai giunta al crepuscolo, Don si guadagnò spazi tutti suoi come nuovo ideologo del trumpismo, una qualifica a cui forse puntava fin dal principio. Prima e dopo il voto dell’8 novembre 2016 infatti il giovane Trump non si risparmiò nel diffondere e nel rilanciare quelle teorie cospirazioniste (la collusione dei Clinton con le banche svizzere, l’antisionismo di Soros) e quelle fake news (la pedofilia di Biden, l’idrossiclorochina contro il Covid, i piccoli attori assunti per creare sdegno intorno alle politiche di separazione delle famiglie dei migranti) che ebbero parte importante nella propaganda trumpiana. Nella sua lotta ideologica alla sinistra Don non si fermò ai tweet: nel 2019 pubblicò anche un pamphlet, Triggered, in cui accusava democratici e progressisti di avere un atavico complesso di vittimismo che li legittimerebbe a demonizzare gli avversari. L’anno dopo fece il bis con Liberal privilege, una ricapitolazione senza sconti della carriera politica di Biden, sfidante di Trump. Idealmente il libro, la cui vendita serviva anche per procurare fondi alla campagna del padre, è una prosecuzione su carta stampata e su più larga scala della polemica che a suo tempo, nel 2019, Trump jr. aveva innescato a proposito dei benefici finanziari avuti da Hunter Biden in quanto figlio appunto di Biden, proprio mentre Trump sr. chiedeva al presidente ucraino di indagare sui “loschi” affari di Hunter in quel Paese. Da che pulpito arriva la predica, osservò l’Associated Press; un figlio di papà che si scaglia contro un suo simile. E così si chiuse il primo round dell’antibidenismo di Don.
Poi, dalle accuse di pedofilia rivolte pubblicamente a Biden padre al libro contro di lui passarono quattro mesi e da questo alle nuove elezioni altri due: e così si giunse a novembre 2020. Ecco Don, con Ivanka e gli altri del clan trumpiano tornare in pista per salvare il grande e insperato exploit di quattro anni prima; e tentare una nuova e improbabile impresa. Ma non c’erano più Bannon e Lewandowski, non c’era più Tillerson né gli altri preziosi appoggi e collaboratori che l’inchiesta sul Russiagate aveva spazzato via. La tempesta del Covid nel frattempo aveva eroso molta parte del consenso popolare. Se si deve dar credito a Wolff, e dunque pensare che nel 2016 Trump e i suoi non avrebbero scommesso un centesimo sulla propria vittoria e fossero già pronti a scatenarsi per le recriminazioni del dopo voto, quanto sarebbe legittimo supporre che per il 2020, con sentori di sconfitta annunciata assai più giustificati, avessero predisposto una fotocopia di quella strategia! Sta di fatto che Don tornò a essere soprattutto attivo un giorno dopo il voto, capeggiando la corrente della linea dura, che non accettava l’esito delle elezioni anche oltre ogni incontrovertibile evidenza. Non gli bastavano le contestazioni tecniche sui voti; voleva le piazze incendiate. Guerra totale, la chiamava lui: il Trump che, già in campagna elettorale disse che non avrebbe mai riconosciuto i risultati del voto e poi, dopo le elezioni, che queste erano state rubate, mostrò di aver sposato quell’idea.
Contrapposta a quella di Don c’era la corrente di Ivanka-Jared (Jarvanka è la simpatica saldatura che piace a Wolff), favorevole piuttosto a una exit with Deal. Almeno fino al 6 gennaio 2021, data dell’assalto dei trumpisti a Capitol Hill: qualche ora dopo, un Trump dimesso e penitente che, in coro con la figlia, pregava i manifestanti di tornare a casa senza creare altri disordini, fece capire che non c’erano più due correnti.
Vinceva Ivanka, ancora lei; e soccombeva “Fredo”, che si era lasciato prendere la mano dai toni esasperati. Quelli che avevano trascinato anche il padre, non solo al culmine dell’esecrazione: ma anche a un secondo impeachment, il Capitolgate. Un vero e proprio bivio per la famiglia Trump: se tarperà le ali al futuro politico di The Donald, potrebbe regalare una possibilità di candidatura presidenziale (e di rivalsa personale) proprio a lui, il figlio primogenito che sembra un secondogenito. A meno che naturalmente non decida di presentarsi Ivanka.