Dopo la visita di Zelensky crescono le preoccupazioni negli Usa

di Dario Rivolta *

È ovvio che la stampa “embedded”, cioè quasi tutta in Italia, abbia vantato il successo della visita di Volodymyr Zelensky negli Usa come un successo e una conferma dell’amicizia tra i due Paesi. È pure comprensibile che nell’occasione Joe Biden abbia dichiarato al presidente ucraino la volontà di continuare nella fornitura di armi e aiuti finanziari e abbia aggiunto che anche i missili-anti missile Patriot saranno consegnati all’esercito del paese aggredito per aiutarlo a cercare di fermare gli ordigni russi che piovono sulle città ucraine. Ovviamente da parte dei due presidenti non si poteva dire altro di quel che è stato ufficialmente comunicato e le pacche sulle spalle e l’espressa volontà di “andare fino in fondo” erano scontate.
La verità del contenuto di quel colloquio è, tuttavia, probabilmente ben diversa.
Cominciamo a vedere la questione del pacchetto di nuovi milioni di dollari promessi e l’impegno a fornire i Patriot.
Tutti sanno che nelle file dei parlamentari repubblicani e tra alcuni degli stessi democratici sono in tanti a non accettare di continuare con gli aiuti a Kiev a “scatola chiusa”. Nonostante i forti introiti che foraggiano i produttori di armi americane, lo stato generale dell’economia statunitense non è florido (pur sempre meglio che in Europa) e l’inflazione senza controllo sta indisponendo l’elettore medio e contribuisce alla caduta del consenso verso questa presidenza. Inoltre, dai primi di gennaio entreranno in carica i parlamentari neo-eletti e ogni previsione lascia pensare che non è affatto garantito che il pacchetto di aiuti promesso da Biden riesca a passare il voto del Congresso. Per quanto riguarda i Patriot, la questione è perfino più complessa. Si tratta di dispositivi estremamente costosi, non disponibili in pochi giorni e che necessitano di un lungo addestramento per il personale che sarà comandato ad usarli. Inoltre proprio per il loro costo e le difficoltà d’uso, può avere un senso usarli solo contro missili veri e propri e non ha senso (nemmeno se si potesse farlo) lanciarli contro i piccoli droni che a decine cadono sulle città causando distruzioni, localizzate ma letali per persone ed edifici. In conclusione, il loro possibile utilizzo potrebbe essere previsto non prima dei prossimi tre/cinque mesi.
Veniamo ora al dunque di quanto Biden e Zelensky si sono detti.
L’ucraino continua a ripetere a tutti che la guerra finirà solo quando tutta l’Ucraina, compresa la Crimea, tornerà sotto il controllo di Kiev e che una negoziazione sarà possibile solo dopo che i russi si saranno ritirati. È difficile immaginare cosa vorrebbe dire una negoziazione in quel momento, a meno che i russi non siano veramente sconfitti sul campo e che Putin (o chi per lui) sia costretto a dover spiegare ai suoi concittadini e alla nomenklatura di essersi “sbagliato”. Tale ipotesi diventerebbe verosimile soltanto nel caso che Putin rinunci, spontaneamente o no, al suo ruolo di presidente e un qualcun altro, più accomodante e meno coinvolto, prenda il suo posto. Purtroppo (o per fortuna, secondo i punti di vista), dalle informazioni che arrivano da Mosca il consenso verso Putin è sempre piuttosto alto sia nella maggior parte del Paese che tra i vertici del Cremlino e una sua destituzione resta altamente improbabile. È vero che tra la pseudo-intellighenzia presente nelle grandi città il despota non gode di alcuna popolarità ma così non è nella Russia profonda e il consenso verso di lui, magari aiutato da una stampa anche lì “controllata”, non sembra essere diminuito.
Di certo fino a che il potere attuale presente a Mosca resterà al suo posto, la possibilità che accetti una sconfitta sul campo è impossibile e, piuttosto di doverla subire, si sarà disposti a tutto. Anche a ricorrere ad armi che finora sono solo state ventilate come minaccia ma si è ben guardati dall’impiegare.
La situazione è chiarissima anche a Washington e pure lì nessuno ha il desiderio di partecipare a una possibile escalation che porterebbe tutto il mondo sull’orlo della reciproca distruzione. Biden e il suo staff hanno già portato a casa due risultati: l’impoverimento dell’economia russa e la dimostrazione dell’inefficienza del suo esercito. È presumibile che gli Usa avessero qualche obiettivo ben più ambizioso quale un cambiamento di regime in Russia e, magari la sua dissoluzione in tanti piccoli Stati molto più controllabili (e sfruttabili economicamente) e tuttavia, almeno per ora, potrebbero accontentarsi. Il non farlo e continuare a finanziare una guerra dai tempi incerti sta cominciando a diventare un peso economico anche per loro. Esiste anche la consapevolezza che gli europei abbiano cominciato a mostrarsi man mano più insofferenti verso l’attuale situazione. Il viaggio solitario di Scholz in Cina e le lamentele di Macron verso l’Inflation Reduction Act a nome delle industrie europee sono un indice che la situazione potrebbe sfuggire di mano e l’alleanza correre dei rischi.
Considerato tutto ciò, è quasi certo che durante l’incontro, formalmente molto cordiale, con Zelensky, Biden gli abbia detto fuori dai denti che è ora di negoziare veramente e di mettere da parte illusioni irraggiungibili come la riconquista di tutto l’ex territorio ucraino. Sembrerebbe che il messaggio abbia colpito l’obiettivo visto che, immediatamente dopo il suo rientro, il presidente ucraino ha affermato di preparare un piano di pace in dieci punti e lo renderà noto il prossimo 24 febbraio.
Che costui parli di dieci punti e che lo annunci soltanto per una data di là a venire non deve stupire: quando si deve negoziare si cerca di farlo sempre dai massimi punti di forza e mai si deve dare l’impressione di avere fretta di arrivare a un determinato risultato. Se e quando Zelensky diventerà realista capirà che la Crimea è e resterà definitivamente russa e che dovrà concedere qualcosa anche sul Donbass. Rinunciare a una parte di territorio in quella regione sarà un grande sacrificio per Kiev, ma l’alternativa sta nel numero di altre morti tra i militari e tra i civili che si pagherebbero nel continuare la guerra. D’altronde, negoziare significa sempre rinunciare a qualcosa. È possibile che Zelensky, marionetta che si crede diventato protagonista, non sia facilmente disponibile a tale soluzione ma chi tiene le carte sono gli Stati Uniti e senza il loro sostegno l’ex attore e le sue ambizioni non vanno da nessuna parte.
Se la guerra dovesse continuare, nessuno sa come potrebbe evolversi e qualora gli alleati continuassero davvero nella fornitura d’armi il risultato potrebbe facilmente diventare un allargamento del conflitto. Nonostante per la Russia sia diventato pressoché impossibile realizzare quanto sperato al momento dell’invasione, il rischio di una sconfitta potrebbe rendere attrattiva persino l’opzione nucleare.
In una guerra dove non ci sono né vincitori né vinti chi pretende di ottenere tutto potrebbero correre il rischio di non ottenere nulla e, in questo caso, sarebbe anche il resto del mondo a pagarne le conseguenze.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.