Elezioni Usa. Ma è davvero democrazia?

di Dario Rivolta * –

Credo che nessuno possa verosimilmente annoverarmi tra gli ammiratori di Trump: su questa stessa testata ho avuto più volte occasione di criticare la sua incoerente e superficiale politica estera. Ho denunciato il non senso di voler attaccare contemporaneamente nemici ed alleati e non sono certo stato magnanimo nell’enumerare le probabili poche letture che hanno accompagnato la sua vita da imprenditore, forse nemmeno così brillante come lui amerebbe far credere. Il momento più alto del mio disappunto nei suoi confronti è stato quando, nonostante mancasse poco al giorno delle elezioni, ha voluto nominare alla Corte Suprema una ultra-conservatrice, distintasi soprattutto per le sue battaglie contro il diritto all’aborto.
È ora possibile che per l’Europa e anche per l’Italia la fine dell’era Trump porti verso un miglioramento dei reciproci rapporti caduti al punto più basso dalla fine della guerra. Non escludo che il futuro presidente abbia la lungimiranza di ricordare quanto i buoni rapporti con il nostro continente siano utili anche per gli Stati Uniti e per la gestione della loro egemonia mondiale. È persino possibile che perfino i Democratici abbiano capito che le passate aperture alla Cina non saranno mai il preludio alla democratizzazione di quel Paese. Che capiscano che l’obiettivo del Dragone resti quello di soppiantare gli Stati Uniti, il mondo occidentale ed i nostri sistemi politici, offrendo in cambio un modello di “buona” dittatura made in Pechino affogata in mezzo a progetti presunti win-win o a “debt-trap”.
Eppure…
A voler essere del tutto sincero, il modo in cui i suoi avversari hanno condotto la campagna elettorale mi disgusta ancora di più di quanto il borioso tycoon sia riuscito da solo a far nascere in me. Il linciaggio monocorde a cui Trump è stato sottoposto in patria e nel mondo mi spaventa.
Non voglio nemmeno prendere in considerazione il servilismo politically correct dei corrispondenti italiani che avallavano sondaggi artificiosi costruiti a tavolino e riferivano interviste soltanto se con i nemici del presidente in carica. Nemmeno mi voglio curare dei loro resoconti di manifestazioni violente di americani, neri e non neri, che presentavano i manifestanti soltanto come buoni obbligati dalle circostanze, e tutti i poliziotti americani come razzisti e potenziali assassini. Ricordo però che nella “democratica” America i cosiddetti social e alcune televisioni si sono permessi di censurare il presidente degli Stati Uniti, togliendogli audio e video perché a loro giudizio stava dicendo “cose non vere”. In qualunque altra parte del mondo, perfino in quelle dittature che vogliono fingere di essere “liberali”, il “regime” (o, se volete, “la voce unica”) lo avrebbe lasciato finire per poi attaccarlo e smentirlo con determinazione, magari mettendolo in ridicolo.
Mi hanno fatto pena star e starlette dello spettacolo o dello sport che si inginocchiavano per mostrare a tutti quanto loro erano “buoni” e come avessero il coraggio di “mettersi contro il potere costituito (sic!)”. Quegli “anti-razzisti” e i giornalisti loro sodali mi hanno immediatamente ricordato due loro colleghi italiani, uno scomparso pochi anni fa il cui cognome iniziava per B e un altro (tuttora in voga nonostante l’età e lo scarso pubblico) il cui cognome inizia per C. Si tratta sempre di specialisti che si sono sempre fatti un dovere di essere forti con i deboli e deboli con i forti. O, se preferite, di attaccare il “potere apparente” rimanendo sempre coperti e organici al “potere reale”.
Oggi il potere reale si chiama politically correct e guai a mettercisi contro. Il suo credo è che i neri sono sempre buoni e sfruttati, che gli immigrati sono tutti povera gente e che noi siamo perfidi egoisti se non vogliono accoglierli (ma non a Capalbio). Che le guerre sono sempre “pacifiche”, purché umanitarie, che tutte le attrici che non hanno fatto carriera non ci sono riuscite perché hanno rifiutato la violenza di maschi sopraffattori. E chi ce l’ha fatta è solo perché brava… La lista potrebbe essere molto più lunga, sia negli USA che da noi.
Torniamo tuttavia alle elezioni americane: la cosa più squallida che tutto il mondo ha potuto notare è stato lo spoglio delle schede.
Se Trump non verrà smentito da giudici veramente liberi e indipendenti, occorre che qualcuno spieghi perché in alcuni seggi elettorali in diversi Stati si siano oscurate le finestre durante gli spogli e si sia impedito agli osservatori del Partito Repubblicano di assistervi. Qualcuno spieghi anche perché in uno stato efficiente come gli Stati Uniti dove perfino i passaporti sono inviati per posta, sia stato possibile considerare valide schede arrivate per posta anche tre o quattro giorni dopo il cosiddetto Election Day. Sappiamo tutti che il voto per posta è impossibile da controllarsi nella sua correttezza e che possono esserci migliaia di persone pronte a vendere la propria scheda elettorale in cambio di pochi dollari. La cosa suona ancora più strana se sarà dimostrato essere vero che alcune delle schede conteggiate nei giorni successivi al 4 novembre non avessero nemmeno il timbro postale.
Voglio ripeterlo: non sono un ammiratore di Trump, ma ho sempre creduto, forse sbagliandomi, che gli Stati Uniti fossero la più grande democrazia al mondo e patria dell’applicazione del diritto (non quello internazionale che è una pura finzione e Washington l’ha dimostrato in diverse occasioni).
Se avvenimenti simili a quelli sopra citati fossero capitati in un qualunque Paese che l’occidente giudica come non-alleato o addirittura “nemico”, l’OCSE avrebbe giudicato queste elezioni come non “free-and-fair”. Gli USA e l’Europa avrebbero anche considerato di lanciare immediatamente delle sanzioni per proteggere il “popolo” da un despota malvagio. Purtroppo, o per fortuna, il Partito Democratico americano non è un despota, anche se ritiene di avere l’esclusiva di decidere cosa sia “buono e giusto” e nessuno lancerà sanzioni. Probabilmente, come diciamo noi in Italia, tutto potrebbe finire a “tarallucci e vino” ma ciò non toglie che, non gli Stati Uniti, ma il concetto e la pratica stessa del voto democratico abbiano questa volta subito un grave attentato.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.