Errori di calcolo

di Dario Rivolta * –

Chi argomenta di politica internazionale e ne fa un parallelo con il gioco degli scacchi è totalmente fuori strada. Sulla scacchiera i ruoli di ogni soggetto sono ben definiti: tutti sanno quali mosse sono consentite all’alfiere, ai pedoni, alle torri ecc. Perfino del cavallo, che pure ha facoltà di muoversi in modo più irregolare degli altri, i limiti d’azione sono ben definiti. La cosa importante è che ogni pezzo non può muoversi come fanno gli altri, dovendo rimanere confinato nelle caratteristiche attribuitegli dalle regole del gioco. In politica internazionale invece tutto è diverso: gli “alfieri” possono trasformarsi, in modo spesso imprevedibile e ingiustificato, in “regine” o in “pedoni” e viceversa. In altre parole gli amici possono contemporaneamente essere anche nemici o diventare del tutto indifferenti. Ognuno gioca per sé e può cambiare obiettivo in qualunque momento. Le variabili impreviste nel mondo della politica internazionale sono così innumerevoli e i protagonisti tanto numerosi da poter smentire in qualunque momento anche le previsioni e i calcoli del più avveduto politologo. Per non parlare di quando a decidere il da farsi sia addirittura qualche politico improvvisato (nessuna allusione a Di Maio, che ha almeno alle sue spalle la Farnesina).
Credere che ai massimi livelli ci siano staff di persone preparatissime e quindi infallibili nell’elaborazione delle loro strategie è una fantasia smentita ogni volta dalla storia. Senza andare molto lontano nel tempo, pensiamo a Mussolini: dichiarò guerra alla Francia il 10 giugno 1940 pensando di potersi così sedere in pochissimo tempo al tavolo dei vincitori e approfittare del risultato di quella “guerra lampo” ipotizzata da Hitler. I fatti seguenti dimostrarono quanto entrambi si fossero sbagliati. Anche la più grande potenza mondiale di oggigiorno, gli Stati Uniti, sono un esempio di quante volte le aspettative e i progetti più accurati sono finiti nel nulla. In Vietnam Washington sopravvalutò le proprie capacità e sottovalutò i suoi avversari. La successiva fuga dai tetti con gli elicotteri era del tutto inaspettata e nemmeno ipotizzabile quando le prime truppe americane sbarcarono in quel lembo dell’estremo oriente. Una fuga ancora più disastrosa e raffazzonata fu quella recente dall’Afghanistan, avvenuta dopo decine di migliaia di morti da entrambe le parti e miliardi di dollari spesi. In entrambi i casi, così come avvenuto all’Unione Sovietica anni prima, si lasciò un governo collaborazionista che non seppe durare (nel caso degli americani nemmeno per un giorno). Anche l’Iraq del 2003 si dimostrò un calcolo totalmente sbagliato. “L’idea che ci vorrebbero diverse centinaia di migliaia di forze statunitensi penso sia lontana dal segno”, disse il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld poche settimane prima dell’invasione. Gideon Rose ha scritto su Foreign Affairs che “entrare in guerra senza piani per porvi fine è un passatempo nazionale americano” (Invero, come vedremo più avanti, non è una caratteristica soltanto americana). Saddam fu sconfitto sul campo in un tempo relativamente breve ma non si era correttamente previsto come sarebbe stato il periodo post bellico. Nessuno a Washington aveva considerato la possibilità che gli uomini (sciiti) da loro scelti per guidare il futuro del Paese avrebbero immediatamente cambiato referente e avrebbero di nascosto chiesto a Teheran istruzioni sul da farsi. Anche la guerriglia dell’Isis, alimentata soprattutto dai membri dell’esercito iracheno epurati sui due piedi per “ripulire” il regime non fu immaginata. Adesso, invece di un Paese finalmente democratico incamminato verso un futuro di benessere, l’esito di quella guerra mostra uno Stato in condizioni economiche disastrose, con una corruzione enormemente diffusa, difficoltà di sopravvivenza per gran parte della popolazione e un sentimento anti-americano in costante crescita. Pochi giorni prima che la guerra scoppiasse, mi trovavo a Tampa, presso la base del comando americano per il Medio Oriente. A me e ai miei colleghi furono somministrate una serie di conferenze che dimostravano come la guerra contro Saddam fosse indispensabile per garantire un futuro raggiante a tutti gli iracheni ed eliminare un pericoloso criminale. Che Saddam, dopo l’invasione del Kuwait, fosse diventato un nemico per tutti noi era una certezza che condividevamo. Sull’opportunità di eliminarlo dalla guida di un Paese che gestiva con pugno di ferro c’erano però in noi molti dubbi. Gli alti ufficiali che ci avevano “istruito” secondo le direttive del loro governo di dubbi sembravano invece non averne. Salvo che, in una pausa per le sigarette dove mi trovai a conversare privatamente con alcuni ufficiali sottoposti, scoprii che anche tra loro i dubbi esistevano ed erano forti. Soprattutto in merito alle conseguenze geopolitiche del vuoto di potere che si sarebbe aperto dopo la caduta del dittatore.
Quelle stesse funeste, e negative, conseguenze le stiamo ancora vedendo in Libia nonostante che, a detta di francesi, inglesi e americani, l’eliminazione di Muammar Gheddafi avrebbe consentito anche lì la nascita di una nuova e ricca democrazia.
Come volevasi dimostrare! Non sempre le grandi strategie si realizzano come pensate perché c’è sempre qualche imprevisto, piccolo o grande, che cambia le carte in tavola.
Ne sa qualcosa Vladimir Putin che, dopo aver tentennato a lungo e provato altre strade, ha deciso che non esistevano alternative all’intervento militare in Ucraina con lo scopo di far cadere il regime attuale e sostituirlo con qualcuno più “vicino” a Mosca. Le sue previsioni, probabilmente, si basavano sulle relazioni presentategli dal FSB o dal GRU e lasciavano immaginare che l’esercito Ucraino si sarebbe sfaldato in pochi giorni, che Zelensky e i suoi sarebbero stati costretti a dimettersi dalla volontà popolare e che gli ucraini, o almeno i madrelingua russi, avrebbero immediatamente solidarizzato con le sue truppe. Abbiamo visto tutti come quel calcolo fosse sbagliato e come il Cremlino abbia dovuto cambiare gli obiettivi in corso d’opera. Ora, più semplicemente, punta alla conquista di tutto il Donbass e, se possibile, a congiungere Mariupol con la Transnistria, chiudendo così ogni sbocco al mare per l’Ucraina che resterà. Purtroppo, o per fortuna, sembra che nessuno, né a Mosca né a Washington, sia in grado di prevedere se e come si arriverà a negoziare la futura pace ma, soprattutto, quanto quell’eventuale pace possa durare.
Una nuova dimostrazione di come più si è in alto e più informazioni errate (o una semplice sopravvalutazione di sé) possano indurre in errore chi prende le decisioni sta nell’atteggiamento degli americani nei confronti della Cina. Ricordo che, nell’ormai lontano 2006 mi capitò di partecipare a Monaco di Baviera a una tavola rotonda “riservata” dove erano presenti, oltre a me, politici tedeschi e politologi americani. A un certo punto osservai che la crescita economica della Cina, già in corso seppur ancora ben lontana dal livello attuale, potesse diventare un forte concorrente non solo economico ma anche politico per tutto l’occidente. Fui zittito proprio dagli americani che mi spiegarono con aria di sufficienza che l’approfondimento dei legami commerciali, diplomatici, culturali con gli Stati Uniti e la contemporanea crescita della classe media avrebbe spinto ineluttabilmente quel Paese verso una trasformazione in senso democratico e di libero mercato. Già nel 1990 gli stati Uniti avevano deciso di concedere alla Cina lo status di “nazione più favorita”, nel 2001 sostennero, nonostante alcune reticenze europee, la sua adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio. Poco più tardi, nel 2006, Washington negoziò addirittura un trattato bilaterale per gli investimenti. Tutto sembrò andare per il meglio: l’interscambio tra Stati Uniti e Cina che nel 1986 era di soli 8 miliardi di dollari, nel 2016 raggiungeva già i 578 miliardi. Barak Obama, pur essendo artefice di altre aperture bilaterali, sembrò accorgersi che fosse necessario prendere alcune precauzioni per il futuro e lanciò il progetto Trans Pacific Partnership che prevedeva accordi commerciali privilegiati (con tutto quello che ciò includeva anche in merito agli standard e alla regolamentazione delle merci) con altri undici Paesi (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam) escludendo proprio la Cina. Nella sua cieca frenesia di voler riequilibrare a tutti i costi la molto deficitaria bilancia commerciale americana, Trump impedì che quell’accordo fosse ratificato dagli Stati Uniti con la conseguenza che gli altri undici Paesi se lo fecero tra di loro e che la Cina, almeno come gesto simbolico, chiedesse di parteciparvi al posto degli USA. A oggi non sembra che Biden abbia intenzione di farlo rinascere.
Contrariamente alle previsioni dei soloni americani a Monaco, la Cina ha sì continuato nello sviluppo economico, ma contemporaneamente ha ridato forza al Partito Comunista, ristretto le libertà individuali, imposto condizioni capestro alle società straniere che investono in loco, aumentato la propria sfera marittima d’influenza nel Mar Cinese del Sud, ha ignorato una sentenza del tribunale ONU competente per la legge del mare e sta rinforzando sempre di più le proprie capacità militari di terra, di aria e nello spazio.
Un memorandum interno del PCC (il Documento 9) mette esplicitamente in guardia contro la “democrazia costituzionale occidentale” e i “valori universali” destinati a “indebolire, destabilizzare e forse distruggere” la Cina. L’ipotesi americana di una democrazia “ineluttabile” e amica è visibilmente fallita. Le politiche costruite su quelle aspettative si sono tramutate nel loro contrario.
Un’altra politica estera elaborata a Washington riguarda i reciproci rapporti tra USA, Europa, Russia e Cina. L’obiettivo di impedire per molti anni a venire una stretta collaborazione economica tra la Russia e l’Europa è stato raggiunto ma al costo di spingere la Russia sempre più verso la Cina. Sembra inutile obiettare che l’avvicinamento obbligato di Mosca a Pechino dà, proprio alla Cina, gli strumenti in termini di materie prime ed energetiche che la rinforzerebbero nel suo contrapporsi mondialmente agli Stati Uniti. La risposta a questa possibile osservazione è data dai decisori di Washington con la solita aria di sufficienza: o Mosca, a seguito delle nostre sanzioni e dei costi della guerra che sta affrontando, diventerà molto debole e ci consentirà di “controllarla”. Oppure, se sceglierà l’altra via, correrà il rischio di un’alleanza così sbilanciata con il Dragone da obbligarla a ritrarsi spontaneamente per non essere “divorata” dai cinesi. I sostenitori di questa tesi aggiungono pure una giustificazione storico-culturale: esiste da sempre una naturale incompatibilità tra russi e cinesi e ciò renderà aleatoria ogni ipotesi di una vera alleanza.
Questa volta avranno ragione o sarà un altro di quegli ennesimi errori politici di cui la storia è piena? Personalmente credo di più alla seconda alternativa.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.