Evasione fiscale: 240 miliardi per l’Ocse

di C. Alessandro Mauceri

euroGiorni fa il premier Matteo Renzi, in visita agli impianti di una multinazionale a Buttrio in Friuli, ha parlato di tasse ed evasione fiscale e ha lodato l’operato dell’azienda che stava visitando. Pochi giorni dopo, il manager della tanto vituperata azienda è finito sotto processo per reati fiscali insieme ad altri sei colleghi della multinazionale friulana.
Il problema delle evasioni fiscali delle multinazionali è ormai esteso a livello globale: recentemente l’Ocse ha reso noti i risultati di uno studio, denominato Beps (Base erosion and profit shifting), un’analisi dell’evasione e dell’elusione delle multinazionali, commissionata dal G-20 nel 2013 e basata sui dati UNCTAD, World Bank, International Labour Organization, Transparency International, WTO e UNESCO per gli anni dal 2005 al 2012 in 172 Paesi.
Secondo gli esperti, i metodi di “pianificazione fiscale aggressiva” delle grandi multinazionali costano ai governi ogni anno dai 100 ai 240 miliardi di dollari, una cifra pari quasi ad un decimo del gettito derivante dall’imposta sugli utili societari.
Da molto tempo ormai si sente parlare di aziende che cambiano la propria sede legale o che spostano sede operativa. Movimentazioni e traslochi che hanno un unico scopo: pagare meno tasse possibile e spostare i profitti in paesi a fiscalità privilegiata, specie attraverso il transfer pricing legato agli elementi intangibili d’impresa, quali marchi e brevetti, o a vendite fatturate direttamente da paesi terzi rispetto a quello in cui la branch occulta opera.
A spiegare questo modo di fare è stato Alessandro Santoro, professore associato di scienza delle finanze all’Università di Milano Bicocca. Secondo Santoro le multinazionali, specie quelle di dimensioni medio-grandi, sfruttano questo strumento per trasferire i “redditi” alle filiali tassate con aliquote più basse e per deviare i costi verso le filiali con aliquote più elevate. Utilizzano le normative diverse dei vari paesi per pagare, talvolta ricorrendo a mezzi al limite della legalità. Il modus operandi è ormai consolidato e ben noto: una società titolare dei diritti di sfruttamento di un marchio, con sede legale in un paese dove le tasse sui l’aliquota sui profitti societari è elevata, crea una nuova società “fiscalmente residente” in un paese dove l’aliquota sui profitti societari è più bassa. Quindi trasferisce i diritti per un valore inferiore a quello di mercato. Per utilizzare il marchio, quindi, la prima società dovrà pagare i diritti alla nuova società. Ma così facendo, la prima società avrà alti costi da dedurre e pagherà quindi poche tasse. La nuova impresa, invece, pagherà sui ricavi per lo sfruttamento del marchio, ma sfrutterà un regime molto minore, quando non addirittura agevolato come è avvenuto nel caso di alcuni paesi. Nel suo insieme la multinazionale di cui entrambe le società sono parte avrà pagato molto meno di prima. Spostamenti che avvengono quasi ogni giorno ma di cui i media parlano solo in occasione di marchi famosi.
Per impedire alle multinazionali di sfruttare le differenze legislative per pagare meno tasse, in Europa, da molto tempo è stato presentato un progetto di riforma che prevede di applicare l’imposizione al totale dei profitti realizzati sul territorio dell’Unione (Common consolidated corporate tax base, Ccctb). La prima proposta risale addirittura al 2011. Secondo alcuni, però, questo progetto non ha ancora visto la luce e giace in Consiglio a causa dell’opposizione di diversi Paesi, quelli che grazie a questo sistema negli ultimi decenni hanno beneficiato di entrate non indifferenti. “Un piano ambizioso ma realistico” che si “basa sul principio fondamentale secondo cui tutte le imprese, siano esse grandi o piccole, locali o mondiali, devono versare una giusta quota di imposte nel luogo in cui si svolge l’attività economica reale e dove gli utili sono effettivamente generati”, ha detto il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis.
Giusto per fare un esempio, nei giorni scorsi Exor FCA (controllato dalla famiglia Agnelli) è diventato il primo gruppo “italiano” per fatturato. Tuttavia di questo la metà deriva dalla Chrysler e solo per il 7,5% da aziende in Italia (anche la Ferrari la storica azienda emiliana è stata registrata alla borsa di New York).
L’Ocse ha individuato 15 “azioni specifiche” per ostacolare questo fenomeno. Delle misure previste, sette dovrebbero essere affrontate entro il 2015, ma molti esperti sono pessimisti. Permangono infatti profondi disaccordi su alcuni passaggi tecnici importanti.
Cosa ha confermata dal direttore della divisione Politiche e amministrazione fiscale dell’Ocse, Pascal Saint-Amans, che ha affermato che ci vorrà tempo per “la traduzione in legislazione nazionale, l’implementazione”. Intanto le grandi multinazionali potranno continuare a giocare con i trasferimenti dei marchi e, in qualche caso, ad evadere tasse e imposte senza grossi problemi.