di Giuseppe Gagliano –
Nell’apparente routine di una settima esercitazione congiunta tra Stati Uniti e Filippine si nasconde in realtà uno dei segnali più chiari della progressiva militarizzazione dell’Asia orientale. Il 4 giugno le forze armate dei due Paesi hanno svolto nuove operazioni congiunte nel Mar Cinese Meridionale, concentrandosi su manovre costiere e supporto di fuoco, lontano dalle aree direttamente contese. Ma la distanza geografica non basta a nascondere la vicinanza simbolica e politica allo scontro con la Cina.
A parlare è il linguaggio dei mezzi: il debutto della BRP Miguel Malvar, una fregata missilistica filippina costruita da Hyundai Heavy Industries, testimonia il riarmo progressivo del Paese. A parlare è il linguaggio della dottrina: “rafforzare l’interoperabilità in linea con il diritto internazionale” è una frase che, nella regione più disputata del globo, suona come una sfida diretta a Pechino.
Sotto la presidenza di Ferdinand Marcos Jr., le Filippine hanno operato un netto riavvicinamento a Washington, dopo anni di ambiguità e bilanciamento tra la potenza americana e l’egemone cinese. La pressione esercitata da Pechino sulle acque contese, con rivendicazioni che si sovrappongono alle zone economiche esclusive di quasi tutti i Paesi rivieraschi, ha accelerato un processo di allineamento che oggi assume contorni operativi: cooperazione, addestramento, posizionamento di armi strategiche.
È il caso del sistema missilistico Typhon, capace di colpire a migliaia di chilometri di distanza, ridispiegato a inizio 2025 sull’isola di Luzon. Oppure dell’addestramento su armamenti a raggio intermedio, che ha visto i soldati filippini integrarsi nei programmi dell’esercito statunitense. Non si tratta più di “assistenza” militare, ma di convergenza strategica.
Le Filippine guardano a un futuro in cui la deterrenza non sarà più un concetto astratto, ma un arsenale disponibile. E per farlo, aprono le loro basi, i loro cieli e le loro acque a una presenza americana sempre più evidente, sempre più avanzata. Ma ogni passo verso Washington è anche un passo di distacco da Pechino. E nel Mar Cinese Meridionale, dove le parole valgono meno delle rotte, ogni esercitazione è un avvertimento, ogni nave è una dichiarazione.
Dietro il rinnovato entusiasmo per il trattato di alleanza c’è il disegno, ormai esplicito, di trasformare le Filippine in un pilastro della strategia statunitense nell’Indo-Pacifico. Come Taiwan, come il Giappone, come l’Australia. Ma a quale prezzo? La logica dei blocchi si riaccende proprio laddove, fino a pochi anni fa, si cercava il dialogo economico e commerciale come strumento di stabilità.
Il messaggio è chiaro: nel nuovo equilibrio asiatico, o si è dentro la rete militare americana o si è potenziali bersagli dell’espansionismo cinese. E per Paesi come le Filippine, non c’è più spazio per l’equidistanza.