Futuro e ambiente: “The Future begins with the decisions we make in present”

di Davide Delaiti –

II 22 giugno 2012 si è conclusa a Rio de Janeiro la conferenza Onu sullo Sviluppo Sostenibile che ha avuto come tema principe la salvaguardia dell’ambiente. Il vertice di Rio ha riunito 188 capi di Stato che avrebbero dovuto riscattare il fallimento raggiunto durante il Summit Onu sui Cambiamenti Climatici di Copenhagen 2009, definito un “teatrino politico degli interessi economici degli stati” e che altro non aveva prodotto se non un documento d’intenti futuri e non vincolanti. Ma con l’assenza del presidente degli Stati Uniti Barack Obama e della cancelliera tedesca Angela Merkel si temeva un tuffo nel passato, e così è stato. Solo il titolo del documento finale sottoscritto dai paesi partecipanti esprime inconcretezza: “The Future we want”, un futuro che, dal 1992 (anno della prima conferenza Onu), fatica a diventare presente. Cinquantatrè facciate di nobili intenzioni in cui l’astrattezza di verbi come “promuovere”, “riaffermare”, “riconoscere”, lascia basiti ambientalisti e Ongcome Greenpeace, che ha definito la conferenza “un fallimento di proporzioni epiche”. Gli esiti della discussione hanno portato a elaborare dei punti riguardo allo sviluppo ambientale: l’adozione di misure per l’eliminazione dei sussidi ai combustibili fossili, la restaurazione di 150 milioni di ettari di terra deforestati entro il 2020, la protezione della biodiversità e dell’ecosistema nell’ambiente marino, la prevenzione dell’inquinamento degli oceani dovuto alla plastica attraverso un programma di educazione e comune collaborazione, la promozione nelle città dell’utilizzo dei rifiuti come fonte di energia rinnovabile e non ultima l’istituzione di un programma più esteso di applicazione della green tax. Questi obiettivi non sono però sostenuti da alcun tipo di tecnicità e di specificazione delle misure adottabili per conseguirli, e il documento rimane un puro inno alla formalità che, grazie alla sua superficialità,  ha accontentato tutti i delegati.
Il vertice internazionale di Rio  ha evidenziato ancora una volta come queste grandi adunate internazionali servano solo a mettere in scena un Multilateralismo che fino ad oggi ha espresso inefficienza operativa per quanto riguarda i temi ambientali e a riproporre quello che il professor Andrew Moravcsik definisce il principio del “Lowest common denominator” (minimo comune denominatore). Infatti, secondo lo stesso Moravscik molti trattati internazionali riflettono quello che è un accordo tra le potenze più forti partecipanti che, a loro volta, rispondono alle esigenze delle proprie economie. Esempio chiave è la Conferenza Onu tenuta a Copenhagen nel 2009, in cui gli stati avrebbero dovuto trovare un accordo sull’abbassamento delle Emissioni di Anidride Carbonica. I cosiddetti Basic States (Brasile , Sud Africa, Cina e India) si erano presentati al  Summit con il preciso intento di evitare che le misure avessero un risvolto dannoso sui propri mercati. Cina, India, Sud Africa e Brasile avevano impedito, con tacita cooperazione, ogni tipo di impegno ufficiale, e il silenzio-assenso statunitense produsse un “Documento Minimalista”:  gli stati dovrebbero “cercare” di evitare che la temperatura terrestre salga oltre i due gradi entro il 2050, e per raggiungere l’obiettivo adottare misure a loro discrezione. Nessun dato, nessun provvedimento specifico, nessuna tecnicità al riguardo e, ancora una volta, grande delusione da parte dell’opinione pubblica internazionale.
Il comportamento dei Basic States è facilmente spiegabile. La posizione comune di questi quattro stati ruota attorno alla solida Partnership tra Cina e India, entrambe economie in ascesa. Misure drastiche e concrete sulla riduzione delle emissioni di Anidride Carbonica significherebbero una rinuncia alla corsa per la leadership economica mondiale. Ma forniamo qualche dato più concreto: l’India deve risolvere l’enorme problema dello squilibrio nella distribuzione della ricchezza, e il livello della povertà si attesta attorno all’8 %. Secondo alcuni esperti, l’India dovrebbe crescere dell’8-10 % annualmente nei prossimi 25 anni per eliminare completamente il problema della povertà. Un abbassamento delle Emissioni di Co2 ne impedirebbe la risoluzione perchè ostacolerebbe la crescita. Analoga la posizione della Cina che si presenta come l’unica potenza in grado di sfidare l’egemonia statunitense in campo economico. La Cina è al secondo posto nella scala dei maggiori produttori di Co2, con il 16,4 % (secondo Greenhouse Gases), subito dopo gli Stati Uniti. Secondo alcuni esperti cinesi, a fronte di un Pil annuale attorno al 10 % le emissioni di anidride Carbonica dovrebbero crescere del 3,3 % annui tra il 2005 e il 2020.
È evidente come le sorti del pianeta siano inevitabilmente legate all’economia dei singoli stati, ed è proprio questo il punto debole del Governance ambientale.
La paralisi decisionale di questi vertici internazionali sull’ambiente è spiegabile tramite un’analisi più generale. La scarsa incisività dei Summit (Rio 1992,  Sud Africa 2002, Copenhangen 2009, Rio 2012) è principalmente dovuta alla natura della Governance ambientale, e a un Multilateralismo che sembra non essere la soluzione giusta per l’urgenza attuale. I due grandi problemi che ne riducono inoltre l’ efficacia sono costituiti dall’interdipendenza tra diversi settori (economia, ambiente, ingerenza internazionale), e dalla questione della responsabilità storica. In occasione della Conferenza di Copenhagen 2009 l’interdipendenza tra ambiente ed economia è stata evidente: meno emissioni significano riduzione della crescita economica, e gli stati sono restii ad accettare una simile condizione. La responsabilità storica è invece motivo di conflitto tra Stati economicamente sviluppati, (Stati Uniti e stati dell’Unione Europea) e Stati in via di sviluppo. Spesso Cina e India si sono appellate  al principio di “comuni ma differenti responsabilità”, lasciando intendere che lo scotto da pagare toccasse ai paesi che nell’ultimo secolo erano cresciuti senza badare alle conseguenze future sull’ambiente, ovvero i paesi dell’Occidente. L’inamovibilità degli stati più forti provoca una paralisi decisionale del sistema, per questo i paesi che pagheranno le conseguenze saranno probabilmente quelli più piccoli, con scarsa competitività internazionale, come alcuni stati africani.
L’altra grande questione della Governance Ambientale è di carattere istituzionale. Ad oggi non esiste un’Organizzazione mondiale dell’Ambiente che operi esclusivamente nell’interesse della tutela del Pianeta. Le tematiche ambientali sono trattate prevalentemente  dall’Unep (United Nations Environment Programm), un’organizzazione internazionale fondata nel 1972 che si occupa di promuovere forme di cooperazione tra stati (organizzazione di conferenze) e di sensibilizzarli sul tema dei cambiamenti climatici. Purtroppo però l’Unep è sempre stata considerata un’organizzazione di serie B a causa della sue funzioni limitate in termini di adozione di misure concrete, e sono dunque necessari i grandi incontri multilaterali Onu affinchè gli stati “siano costretti” a prendere in considerazione politiche ambientali globali. Esiste inoltre un altro aspetto istituzionale che riduce notevolmente l’efficienza e il progresso in questo settore: gli stati hanno sempre rifiutato qualsiasi tipo di ingerenza internazionale  nei propri affari interni per quanto riguarda l’adozione di misure in favore dell’ambiente (forme di monitoraggio o sanzionamento).  La credibilità dei grandi Summit Onu come Rio 2012 è dunque ridotta se non sussiste alcun tipo di controllo o supervisione esterna. L’idea di un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente, che si occupi 365 giorni l’anno di tematiche ambientali e costitutita da un gruppo di nazioni che condividono i medesimi obiettivi, è stata proposta dall’Ue nell’ultimo incontro a Rio de Janeiro, proposta inevitabilmente respinta, ancora una volta.
Dal 1992 si sono susseguiti vari incontri ai vertici internazionali che come spiegato non sono stati affatto incisivi o comunque hanno mostrato ogni volta come gli stati non siano disposti a prendere seriamente le tematiche ambientali, che rimangono dunque alla mercé dei loro interessi economici. Il comportamento dei leader dei paesi più importanti frena anche qualsiasi tipo di riforma istituzionale che possa conferire maggiore efficienza operativa in questo ambito. Una soluzione intelligente sarebbe quella proposta da Carlo Carraro,  professore di Econometria e di Economia Ambientale all’università Ca’ Foscari di Venezia : “Invece di negoziati top-down e globali concentrati su obiettivi di riduzione nazionali, ogni Stato o gruppo di Stati verrebbe a determinare il proprio contributo ai fini di uno sforzo cooperativo per ridurre le emissioni di gas serra, e verrebbe a scegliere i partner con cui intende cooperare”. In poche parole un sistema down-top , invece che top-down. Ma per ora questa idea sembra rimanere tale. Purtroppo l’urgenza attuale non consente più di perdere altro tempo con mirabolanti impegni futuri e non definiti perché, come era scritto su uno striscione di un’Organizzazione non governativa a Rio 2012, “The Future begins with the decisions we make in present”.