di Giuseppe Gagliano –
Il vertice dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche centrali del G7, tenutosi in Canada, ha lasciato intendere molto più di quanto abbia esplicitamente dichiarato. Sotto la superficie dei comunicati ufficiali, dove si condanna la “continua guerra brutale” della Russia contro l’Ucraina e si invoca un’unità d’intenti tra le democrazie avanzate, si cela la vera posta in gioco: la Cina.
Nessuno ha osato nominarla apertamente, ma tutti l’hanno pensata. Quando si parla di “squilibri economici globali”, “politiche non di mercato” e “distorsioni commerciali”, il dito è puntato verso Pechino. Lo stesso vale per il riferimento alle sovvenzioni all’export e alle manipolazioni valutarie: accuse implicite al colosso asiatico, divenuto ormai il convitato di pietra di ogni summit economico occidentale.
La dichiarazione finale del G7 non contiene significativamente alcuna critica esplicita ai dazi imposti dal presidente Trump su automobili, acciaio, alluminio e decine di altri prodotti cinesi (e non solo). Ma l’omissione non è casuale: riflette l’imbarazzo di un’alleanza che, da un lato, rivendica la difesa del libero mercato e, dall’altro, tollera, o persino emula, pratiche protezionistiche quando fanno comodo ai propri interessi. Il Canada, che ospitava il summit, ha chiesto l’abolizione delle misure punitive, ma senza ottenere nulla di concreto. Eppure, tutti i presenti sapevano che proprio quelle tariffe sono uno degli strumenti preferiti da Trump per piegare l’economia cinese (e con essa, indirettamente, anche i suoi alleati).
Sullo sfondo intanto si consuma una guerra commerciale sempre più ramificata e velenosa. L’Unione Europea, nel 2024, ha colpito le auto elettriche cinesi con dazi fino al 35,3%, accusando Pechino di drogare il mercato con sussidi. La Cina ha risposto con un’indagine antidumping sui liquori europei, mettendo nel mirino il cognac francese. I danni si misurano già in decine di milioni di euro al mese, mentre Parigi e Pechino tentano una fragile distensione, sancita da una telefonata tra Macron e Xi Jinping. Ma è evidente che non basterà qualche gesto diplomatico per disinnescare un conflitto economico sistemico.
La scelta del G7 di non includere la Cina tra gli interlocutori diretti, ma di evocarne l’ombra in ogni riga, rivela l’ambiguità strutturale del blocco occidentale. L’unità d’intenti tanto vantata dal ministro canadese Champagne è più di facciata che reale. Lo stesso vale per il riferimento attenuato alla guerra in Ucraina: rispetto alla dichiarazione di ottobre 2024, in cui la Russia veniva esplicitamente accusata di aggressione illegale, oggi il linguaggio è più cauto, più tiepido. Un segnale chiaro che l’amministrazione Trump, pur dichiarando fedeltà alla causa ucraina, sta progressivamente riorientando la bussola strategica verso altre priorità.
Non a caso la Casa Bianca ha confermato la partecipazione di Donald Trump al vertice dei leader del G7, previsto a metà giugno a Kananaskis. In quell’occasione si misurerà davvero la tenuta dell’alleanza occidentale: riusciranno gli Stati Uniti e i loro partner a mantenere una linea comune, o prevarranno gli interessi divergenti, le agende nazionali, la tentazione di accordi bilaterali sottobanco?
Intanto la Cina osserva e incassa. Non risponde con proclami, ma con indagini mirate, ritorsioni commerciali e strette di mano alternative: dal Sud globale all’Asia centrale, Pechino costruisce il proprio “ordine economico internazionale” a sua immagine e somiglianza, mentre l’Occidente litiga sulle tariffe e si illude di poter contenere il Dragone con dichiarazioni anodine.
In questa guerra economica a fuoco lento, non basta evocare la Cina: bisogna capirne le mosse, anticiparne le strategie, costruire un fronte compatto. Per ora, il G7 ha solo sfiorato il problema. Ma il tempo stringe. E Pechino non aspetta.