di Giuseppe Gagliano –
L’annuncio con cui Hamas ha accolto diverse parti del piano di pace di Donald Trump per un cessate-il-fuoco a Gaza segna un punto di svolta inatteso in un conflitto che negli ultimi mesi sembrava irrimediabilmente bloccato. La disponibilità del movimento palestinese a trattare sulla liberazione di tutti i 48 prigionieri israeliani, compresi i resti dei caduti, e a cedere la gestione della Striscia a un organismo palestinese di indipendenti con appoggio arabo-islamico, rappresenta una mossa pragmatica e un tentativo di rompere l’isolamento politico e militare.
Trump ha colto l’opportunità per rilanciarsi come mediatore globale, presentando il piano in 20 punti come un’occasione storica per riportare la pace in Medio Oriente e invocando la sospensione immediata dei bombardamenti israeliani. La sua dichiarazione su Truth Social, in cui ha parlato di “giorno speciale” per il rilascio degli ostaggi, è un chiaro messaggio politico diretto a Israele: l’alleato storico deve ora mostrarsi disponibile alla de-escalation.
Dietro l’apparente convergenza, restano però nodi cruciali. Hamas non ha accettato il disarmo, uno dei pilastri della proposta americana, e chiede che il futuro di Gaza venga discusso in un quadro di consenso nazionale palestinese, coinvolgendo anche l’Autorità Nazionale Palestinese e i Paesi arabi. In altre parole, il gruppo rifiuta l’idea di separare Gaza dalla Cisgiordania, temendo che l’istituzione di un “Consiglio per la Pace” sotto guida internazionale cristallizzi una divisione permanente del territorio palestinese.
La proposta di Trump non affronta infatti la questione della riunificazione con la Cisgiordania né offre un percorso concreto verso lo Stato palestinese, limitandosi a congelare il conflitto. È una tregua funzionale agli equilibri di breve periodo, ma insufficiente a risolvere le radici politiche della crisi.
Il governo israeliano continua a puntare a una “vittoria totale” su Hamas, un obiettivo che appare più ideologico che strategico. L’offensiva di terra avviata a Gaza City il 16 settembre, dopo mesi di raid e demolizioni con veicoli telecomandati, ha devastato i quartieri centrali e aggravato una crisi umanitaria già drammatica: circa diecimila civili uccisi da marzo, in gran parte sotto le bombe e persino nei luoghi di distribuzione degli aiuti.
Questa strategia sembra avere un doppio fine: mantenere Hamas sotto pressione, ma al tempo stesso impedire l’affermarsi di un governo palestinese alternativo che possa offrire a Gaza un futuro politico. È la prosecuzione di una logica di “gestione del conflitto”, che punta a rendere l’enclave sempre meno vivibile per scoraggiarne la permanenza dei residenti.
L’aspetto economico non è secondario. La distruzione di infrastrutture civili e industriali a Gaza riduce le capacità produttive e alimenta la dipendenza dagli aiuti esterni, mentre i corridoi commerciali restano sotto controllo israeliano. Al contempo, Israele sostiene enormi costi militari e sociali, aggravati dall’incertezza politica e dall’erosione del sostegno internazionale.
Il piano di Trump promette investimenti e una gestione tecnica della ricostruzione, ma non chiarisce come e da chi verranno garantiti fondi e sicurezza: un vuoto che rischia di lasciare spazio a nuovi conflitti di interesse e a una ricostruzione condizionata da logiche esterne.
La mossa di Hamas, definita dal giornalista di Al-Jazeera Ali Hashem come “una finestra per i negoziati”, apre spiragli ma non scioglie il nodo della governance palestinese e del ruolo delle potenze regionali. Il sostegno arabo-islamico a un esecutivo provvisorio a Gaza sarà decisivo per evitare che il piano resti solo un accordo sulla carta.
Sul piano geopolitico, l’iniziativa americana rappresenta un tentativo di ridare agli Stati Uniti un ruolo di arbitro in Medio Oriente dopo anni di marginalità diplomatica. Ma per trasformare questa tregua in un processo di pace autentico sarà necessario un consenso che oggi appare lontano: Israele dovrà accettare compromessi sulla sicurezza e sul futuro politico di Gaza, mentre Hamas dovrà rinunciare all’arma militare come leva negoziale.
L’apertura di Hamas al piano Trump non è ancora la fine della guerra, ma indica che anche gli attori più radicali riconoscono il logoramento di un conflitto che ha già superato ogni limite umanitario. Tuttavia, senza un orizzonte politico chiaro, la tregua rischia di restare solo una pausa tattica, funzionale a riorganizzazioni militari e pressioni diplomatiche.
Il vero test sarà la capacità di trasformare l’intesa in un processo politico inclusivo, che affronti la questione palestinese nella sua interezza e non come frammento separato. In caso contrario, il cessate il fuoco sarà solo l’ennesima parentesi in una guerra che continua a plasmare il destino del Medio Oriente.












