
di Marcello Beraldi –
Siamo abituati al cinismo della Storia, ma c’è un cinismo più sfacciato, quello che si traveste da trionfo diplomatico. La “pace” in Palestina, annunciata con squilli di tromba da Washington e Tel Aviv e sigillata in quei famigerati 20 punti di Donald Trump, non è la fine di un conflitto. È l’atto notarile che sancisce la vittoria definitiva dell’occupante e la formalizzazione dell’apartheid, il tutto con la benedizione del “gendarme” globale che, per decenni, aveva affinato l’arte del diniego.
Per capire come siamo arrivati a questo esito grottesco, è necessario riavvolgere il nastro. Non alla vigilia del piano, ma al cuore pulsante della strategia americana: i veti incrociati all’ONU che avevano garantito l’impunità a Israele Gaza. La “pace” imposta: perchè si è passati dai veti USA alla tregua.
La grande inversione: quando il veto non bastò più.
Il passaggio dalla serie infinita di veti a un piano di “pace” imposta non è stato dettato da una redenzione morale o da una subitanea riscoperta del diritto. Al contrario. È stato il risultato di un terremoto geopolitico che ha reso il conflitto insostenibile persino per gli alleati più fedeli di Israele. L’amministrazione Trump è stata costretta a intervenire non per mediare, ma per salvare l’architrave del potere statunitense in Medio Oriente, ormai crepato da fattori convergenti.
Vediamo nel dettaglio gli accadimenti che hanno indotto gli States ad imporre ad Israele una tregua, seppur fragile e superficiale, travestita da “pace storica” che se non altro ha avuto il merito di rallentare il genocidio in corso.
L’isolamento totale di Israele: il vuoto all’ONU.
Per decenni Israele ha goduto del sostegno incondizionato, ma la brutalità dell’ultima aggressione a Gaza ha superato ogni soglia tollerabile, persino nelle stanze del potere. L’episodio simbolo di questo collasso è stata la scena del vuoto all’Assemblea Generale dell’ONU, quando il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato a una sala quasi deserta. Quella sedia vuota non era un atto di protesta di una singola nazione, ma la manifestazione fisica della delegittimazione internazionale di Israele, ormai percepito da gran parte del mondo come uno Stato che opera al di fuori di ogni norma. Washington non poteva più permettersi di sostenere un partner così tossico, che minava la sua stessa credibilità globale.
L’attacco a Doha: il crollo della diplomazia del Golfo.
Un altro elemento decisivo è stato l’attacco israeliano a Doha. Il Qatar, benché conservatore, era l’unico canale diplomatico credibile per la negoziazione di ostaggi e la gestione della crisi con Hamas, fungendo da mediatore essenziale. L’azione militare contro la capitale di un alleato strategico degli Stati Uniti e di un Paese cruciale per la fornitura energetica (e per le basi militari USA) ha rappresentato un atto di autolesionismo strategico che ha mandato in frantumi la fiducia di Washington. Israele, agendo in modo sconsiderato, aveva compromesso gli asset diplomatici americani, rendendo necessario un intervento diretto e autoritario per stabilizzare la regione.
Il nuovo asse: l’accordo di difesa Arabia-Pakistan.
L’asse geopolitico mediorientale e asiatico stava subendo una mutazione cruciale. L’accordo di reciproca difesa firmato tra Arabia Saudita e Pakistan ha creato una nuova, potente, alleanza militare regionale, dotata di capacità nucleari (quelle pakistane) e di una profondità strategica ed economica enorme (quella saudita). Questo patto non solo ha segnalato la crescente autonomia dei Paesi musulmani rispetto agli USA, ma ha anche creato un contrappeso militare sufficiente a rendere impensabile un’escalation incontrollata da parte israeliana, che avrebbe potuto coinvolgere i nuovi attori. Per Trump, l’urgenza era imporre una “pace” fittizia prima che l’allargamento del conflitto sfuggisse totalmente al controllo americano.
I riconoscimenti occidentali: la sconfitta morale degli alleati.
L’onda d’urto del massacro di Gaza ha incrinato persino l’unanimità occidentale. Il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di potenze del G7 come Gran Bretagna, Francia, Canada e Australia è stato un fatto senza precedenti. Questo non è stato un gesto di pura solidarietà, ma un atto di pragmatismo politico: la base elettorale interna, la pressione dei partner europei e la necessità di salvare un briciolo di credibilità internazionale hanno spinto questi governi a rompere il fronte compatto con Israele. Per Trump, i riconoscimenti erano il campanello d’allarme: la “soluzione israeliana” al conflitto stava perdendo il supporto morale e politico persino dei suoi sponsor storici.
Le piazze del mondo: il giudizio popolare sul genocidio.
Infine, la miccia: l’ininterrotta pressione dalle piazze di tutto il mondo per una condanna del genocidio israeliano a Gaza. Milioni di persone, in ogni continente, hanno continuato a riversarsi nelle strade chiedendo il rispetto del diritto internazionale e la fine immediata delle ostilità. Questa pressione “dal basso” ha alimentato i punti precedenti, fornendo la forza politica ai governi occidentali per mutare rotta (i riconoscimenti) e minando la legittimità interna di Israele (l’isolamento ONU). Trump non ha agito perché commosso, ma perché la voce della piazza aveva reso politicamente troppo costoso mantenere l’inerzia, sopratutto per un “populista” come il presidente americano che sa fiutare l’umore popolare che stava diventando un ruggito di rabbia in sostegno dei palestinesi massacrati.
Il dettato dei 20 punti: sovranità negata.
Il Piano Trump è quindi la risposta d’autorità all’emergenza geopolitica creata dalla crisi di Gaza. Non un piano di pace, ma un diktat coloniale, un tentativo di formalizzare il controllo israeliano con un escamotage americano, eliminando ogni futura possibilità di resistenza legittima.
Quella che i media embedded chiamano “Pace” è l’ultima, più cinica, delle illusioni. È la pace del cimitero, la formalizzazione di un regime di apartheid sotto la direzione americana. Per noi, l’unica verità resta quella incisa sui muri: senza giustizia, non c’è pace. C’è solo l’ultima, devastante, vittoria del più forte.











