Gli errori dei “nuovi ordini mondiali”. Perché gli stati non sono pedine di una partita a scacchi

di Dario Rivolta * –

Scacchi grandeQuali sono le ragioni che spingono i governi a fare le loro scelte nella politica internazionale? Chi prende le decisioni e con quali procedure vi si arriva?
In alcune circostanze, per le scelte strategiche di breve e medio periodo c’è poco spazio lasciato ai decisori. E’ il caso di quando un paese è parte di una alleanza ben definita e stringente come lo furono la Nato ed il Patto di Varsavia nel periodo delle loro contrapposizione. Ma è anche il caso, seppur (ahimè!) in misura molto ridotta, di un’organizzazione come l’Unione Europea che, pur essendo di fatto una semplice unione economica, a causa della retorica sull’unità politica non consente ai propri membri scelte troppo difformi tra loro per salvare, almeno ove possibile, un’apparenza di condivisione degli obiettivi.
Al di fuori, però, di alleanze molti vincolanti, ogni stato deve decidere da solo tra le soluzioni realisticamente possibili, come collocarsi nella scena internazionale e quali opzioni privilegiare. Chi più di tutti ha libertà d’azione e può fare scelte totalmente (o quasi) autonome sono gli stati internazionalmente ininfluenti o, al contrario, chi punta a una posizione dominante in una particolare area o nell’intero mondo. Tra coloro che si sono posti come obiettivo un ruolo egemonico nella loro parte del globo (sono molti in ogni settore strategico del nostro pianeta), in Medio Oriente troviamo la Turchia, l’Arabia Saudita e l’Iran. In Sud America l’Argentina e il Brasile, in Europa soprattutto la Germania, in Asia l’India e il Giappone. Non citiamo la Cina poiché il Paese dei Mandarini ha deciso di ambire, fingendo di non farlo, ad un ruolo di prima potenza sia a livello regionale che mondiale. Naturalmente, ad oggi, sopra tutti gli altri si pongono gli Stati Uniti.
Il cittadino medio di qualunque altro paese è convinto che chi orienti la politica estera degli Stati Uniti sia il presidente, ma la realtà è diversa: la personalità del presidente di turno gioca certamente un ruolo e acquisisce maggiore o minore ascendente secondo la sua “medianicità”. Tuttavia, la strategia e la tattica internazionali di Washington sono, da sempre, frutto dello staff della Casa Bianca che detta la strada da seguire. Kennedy e Reagan furono individualmente molto importanti per la loro capacità comunicativa, ma non è affatto vero che quanto attuato fosse frutto solamente del loro pensiero. Di Nixon, intelligentissimo politico, si sa che il maggior ispiratore per la politica internazionale fu Henry Kissinger, tutt’oggi considerato il grande maestro del realismo politico. Gli altri presidenti, compreso Obama, hanno avuto attorno a sé personalità diverse tra loro ma cha hanno saputo integrare i loro skills con il “capo”. Bush figlio è stato invece dominato da un intero gruppo di politici ed intellettuali definiti come “neo conservatori”. Si trattò per lo più, in quel caso, di alcuni “esperti” che avevano avuto in passato, manifeste simpatie “trotzkiste” e che, pur convertiti, non avevano rinunciato all’idea di essere guida di un nuovo ordine mondiale capeggiato dagli Sati Uniti.
Tuttavia, indipendentemente dalla filosofia che li contraddistingue, i governi che si succedono mantengono solitamente una certa continuità di fondo tra loro e differiscono piuttosto in alcune scelte tattiche.
Se la strategia resta dunque la stessa, il decidere quale mossa fare assomiglia quindi a una grande partita a scacchi. Esattamente come i giocatori della scacchiera, un politico responsabile cerca di prevedere, da solo o in gruppo con i propri collaboratori, le varie conseguenze che possono scaturire da una mossa o dall’altra. Purtroppo, a differenza di una partita di scacchi, i soggetti coinvolti non hanno, come invece lo hanno le pedine di quel gioco, personalità e reazioni individuali predefinite. Negli scacchi un cavallo è un cavallo e può fare solo le mosse che gli sono attribuite. Nella vita reale, il “cavallo”, pur se si è sempre comportato in un modo più o meno prevedibile, può decidere di muoversi da “alfiere” o da “regina”. Senza contare che le variabili, sia nel loro numero sia nelle loro caratteristiche, sono spesso imprevedibili. Anche da qui gli errori che sono sotto gli occhi di tutti.
Quando l’amministrazione di George W. Bush decise di “esportare la democrazia nel mondo” cominciando dall’Iraq di Saddam Hussein, aveva correttamente previsto la facile sconfitta dell’esercito iracheno, ma non aveva saputo prevedere o misurare né il successivo comportamento iraniano né le conseguenze sociali dell’eliminazione da ogni posto di comando e da ogni occupazione di tutti coloro che , in un modo o in un altro, erano stati legati al vecchio regime. Anche la scelta, fatta di comune accordo fra Iran e Stati Uniti, di puntare su Nouri al-Maliki si è manifestata un gravissimo errore. Ha giocato, in quel caso, la psicologia individuale del due volte primo ministro: una sfrenata ambizione individuale accompagnata dall’incapacità di suscitare un naturale consenso e una politica talmente settaria contro i sunniti da spingere molti di questi ultimi direttamente nelle braccia dell’Isis. La stessa incapacità di valutare esattamente gli scenari possibili si è resa evidente in Siria. Partiti, Turchia, Usa e (in seguito) Francia con l’obiettivo di eliminare Bashar al-Assad, siamo arrivati dopo cinque anni di guerra civile alla conclusione che “con al-Assad si deve trattare” (Kerry). Nel frattempo si sono causati due milioni di sfollati e diverse centinaia di migliaia di morti per tornare quasi alla situazione di partenza.
Francois Sarkozy in Libia non ha fatto di meglio. Lo scenario da lui immaginato passava attraverso l’ousting di Gheddafi per mirare, tra l’altro, a far si che la Francia sostituisse l’Italia come principale interlocutore economico di quel Paese. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un’anarchia di innumerevoli fazioni in lotta tra di loro, tanto sangue che scorre ed un paese, già ricco, oggi sull’orlo della bancarotta.
Lo scenario sbagliato, per noi tutti più pericoloso, è però quello ucraino. Lì la responsabilità è condivisa tra il governo americano, reduce dall’iniziale volontà di “reset”, e alcuni paesi europei che si sono trascinati dietro, per insipienza succube al desiderio di “unità”, anche tutti gli altri . Fu un errore, in questo caso del tutto prevedibile, obbligare l’Ucraina a scegliere tra la vicinanza con la Russia e quella con l’Europa. Fu un errore ancora più grave strumentalizzare il malcontento popolare, causato da politici locali corrotti ed incapaci, e fomentare le manifestazioni di Maidan. Sembra assurdo dover prendere atto che gli scenari previsti non avessero tenuto conto che la Russia non poteva accettare un potenziale nemico proprio sotto casa, affacciato su una pianura che arriva fino a Mosca senza nessuna barriera naturale. Ma, soprattutto, come è stato possibile non considerare gli estesi e stretti legami economici di quel paese e i vincoli storico-culturali che unisce l’Ucraina ai “fratelli”russi? Il risultato è disastroso. L’economia ucraina è in fallimento e potrà essere salvata solo con enormi iniezioni, e per lunghissimo tempo, di danaro fresco. Nessuno dei contendenti potrà contare su una sicura vittoria e anche la tregua (piuttosto nebulosa) raggiunta tra est e ovest, considerato il sangue versato da entrambe le parti, dà l’idea di essere solo provvisoria.
In conclusione, chiunque prenda decisioni di politica internazionale e comunque ci arrivi, sarebbe bene che non dimentichi mai che quando si innesca una qualunque azione, essa può anche seguire strade non previste e, spesso, assume una sua vita propria, indipendentemente da chi l’aveva immaginata. E talvolta le conseguenze possono diventare molto spiacevoli. D’altronde, vale sempre il famoso detto: “Il battito di una farfalla nel mare della Cina potrebbe essere la causa di una tremenda tempesta nel centro dell’Europa”.

*Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.