Gli Usa alla guida di un nuovo “microlateralismo” nel nome della democrazia

di Maurizio Delli Santi * –

Dal think tank statunitense Council on Foreign Relations (CFR), da oltre un secolo l’anima pensante dell’autorevole Foreign Affairs, sono stati originati i 14 punti della dottrina Wilson, la strategia del “containment” di George Kennan, il pensiero geopolitico del Piano Marshall, fino a giungere alle teorie geostrategiche più recenti fra cui la più nota The Clash of Civilization di Samuel Huntigton.
È bene guardare quindi con attenzione quanto analizzato da quel particolare osservatorio, perché qualche tema che viene proposto potrebbe rappresentare un trend o un ‘idea di cui potrebbe essere utile coglierne per tempo le opportunità e le potenzialità.
In quest’ottica, appare molto efficace e suggestivo lo scenario che viene proposto in un recentissimo articolo del 29 aprile di Foreign Affairs dal titolo The Case for Microlateralism With U.S. Support, Small States Can Ably Lead Global Efforts (Il caso del “microlateralismo”. Con il sostegno degli Stati Uniti, i piccoli Stati possono guidare abilmente gli sforzi globali), a firma di due analisti Jared Cohen, Senior Fellow del CFR, e Richard Fontaine, CEO di un altro importante think thank, il Center for a New American Security. L’analisi è molto puntuale e in effetti induce a pensare che non sempre la politica internazionale ha come protagoniste le grandi potenze, anche perché proprio i contrappesi dei grandi blocchi possono portare allo scontro di visioni non conciliabili o comunque all’immobilismo decisionale, come accade per il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e per lo stesso G20. In questi tempi poi, osservano gli analisti, l’influenza cinese ha minato l’efficacia delle principali organizzazioni internazionali, come l’OMS, e gli accordi commerciali multilaterali, come il Trans-Pacific Partnership, mancano di sostegno politico interno.
Certo, sugli scenari della politica internazionale è ricomparsa la scelta di un rinnovato multilateralismo della presidenza Biden, che, in netto contrasto con l’agenda “America first” dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, già dalle prime settimane ha ribaltato alcune delle decisioni più controverse dell’approccio del predecessore: gli USA sono rientrati nell’accordo sul clima di Parigi, hanno bloccato l’annunciato ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), hanno revocato l’executive order contro i giudici della Corte penale internazionale, hanno rilanciato l’impegno con il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, e stanno rivedendo i rapporti con l’Iran. A dire il vero – e gli analisti in questione non si pronunciano su questo aspetto – rimane qualche perplessità sulla scelta del ritiro dall’Afghanistan, perché l’aspettativa di molti osservatori guardava alla presenza americana come un contributo fondamentale per la stabilizzazione dell’area di crisi. Su questo punto, forse, bisogna essere più realisti nel guardare ad un nuovo modello di multilateralismo, perché sul piano interno la forte crisi che sta vivendo la società americana non può indurre Biden a sostenere uno sforzo eccessivo sul piano internazionale. Una indicazione in tal senso si coglie in una altra analisi di Foreign Affairs, del 22 aprile a firma di J. Sapiro The Mantle of Global Leadership Doesn’t Fit a Foreign Policy for the Middle Class (Il mantello della leadership globale non si adatta a una politica estera per la classe media). Nell’articolo si sostiene che la ricerca di una rinnovata leadership globale nella politica estera “non si adatta alle esigenze della middle class statunitense”, molto provata dalla crisi economica e sociale che sta vivendo. In particolare secondo Sapiro “gli Stati Uniti dovrebbero ridurre i loro impegni militari all’estero, non solo in Afghanistan ma in Iraq, in Europa e nel più ampio Medio Oriente. Dovrebbero finalmente porre fine alla ‘guerra globale al terrore’ e cessare gli sforzi mondiali per inseguire oscuri gruppi terroristici in Medio Oriente e in Africa che non hanno la capacità di attaccare gli Stati Uniti. E dovrebbe chiedersi se il Paese abbia davvero molto interesse e capacità di promuovere la democrazia in regioni lontane di scarsa importanza strategica, come l’Etiopia e il Myanmar”.
Da qui dunque la ragionevole esortazione di Cohen e Fontaine a guardare ad un multilateralismo ove vi sia spazio anche per iniziative degli Stati che non sono annoverati fra le grandi e medie potenze, e quindi ad un “microlateralismo” più esteso, certamente sostenuto dalla leadership statunitense. E qui gli analisti compiono una ricognizione davvero interessante sulle più rilevanti iniziative diplomatiche che hanno portato a risultati di assoluto rilievo che vanno ricordati. Negli anni ’90, ad esempio, la Norvegia ha mediato i negoziati tra Israele e OLP che, con il sostegno degli USA, hanno portato agli accordi di Oslo. Nel 1999, il Togo ha guidato un processo di pace che, ancora con il sostegno di Washington, ha contribuito a porre fine alla guerra civile in Sierra Leone. Nel 2008, l’emiro del Qatar Sheikh Hamad Bin Khalifa al-Thani ha convocato le fazioni libanesi rivali e, con il sostegno di Francia, Arabia Saudita, Iran e Stati Uniti, è giunto all’accordo di Doha. A partire dal 2015, il “processo di Aqaba” guidato dalla Giordania ha coinvolto gli Stati più grandi per condividere e coordinare gli sforzi nella lotta al terrorismo. Dopo gli attacchi terroristici alla moschea di Christchurch del 2019, il primo ministro neozelandese Jacinda Ardern, sostenuta dal presidente francese Macron, è riuscita a convocare i governi e le società Internet per sottoscrivere il “Christchurch Call”, un impegno per eliminare dal web i contenuti estremisti e violenti. Nel marzo 2020, l’Austria ha guidato il First Mover Group, un forum che ha riunito Australia, Grecia, Israele e Singapore per discutere sulle risposte alla pandemia COVID-19. E nel novembre 2020 la Finlandia ha ospitato la Conferenza sull’Afghanistan, raccogliendo 3,3 miliardi di dollari per sostenere lo sviluppo del paese.
Ma si può anche aggiungere, guardando alle iniziative umanitarie, ancora l’esempio storico di cosa ha potuto compiere la Svizzera per lo sviluppo del movimento della Croce Rossa Internazionale e del diritto internazionale umanitario. Mentre, ragionando anche sull’incidenza che possono avere “micro-attori”, in questo caso non statali, sulla politica internazionale basta ricordare le iniziative intraprese dalla Comunità di Sant’Egidio che, oltre alle tante intese in aree di crisi che hanno potuto realizzare corridoi umanitari, ad esempio hanno posto alla fine della guerra civile in Mozambico con gli accordi di Roma del 1992.
E allora ecco la proposta concreta sul “microlateralismo” degli analisti di Foreign Affairs: “La leadership dei paesi più piccoli può rendere uno sforzo multilaterale politicamente più accettabile per le grandi potenze in rivalità l’una con l’altra”. E vengono indicati alcuni percorsi plausibili, per obiettivi o ambiti inizialmente circoscritti o delimitati, ma poi anche più estesi. Un primo programma potrebbe iniziare con l’economia digitale. L’Estonia ha una popolazione di appena 1,3 milioni di abitanti e confina con una Russia ostile, ma si classifica davanti a Giappone, Singapore e Stati Uniti nei sondaggi globali sulla governance elettronica. Paesi più grandi, tra cui Messico, Finlandia e Giappone, tra gli altri, stanno utilizzando proprio la piattaforma governativa dell’Estonia X-Road per migliorare la propria governance digitale. Un forum “microlaterale” guidato quindi dall’Estonia potrebbe aiutare molti paesi a migliorare l’efficienza e l’erogazione dei servizi governativi e dell’assistenza sanitaria attraverso i sistemi digitali. E in effetti, sembra che siano proprio i paesi più piccoli ad assumere un ruolo guida sulle questioni digitali come è emerso con il DEPA, Digital Economy Partnership Agreement, firmato da Singapore, Cile e Nuova Zelanda nel giugno 2020, ove sono previste misure tese a garantire sicurezza nei flussi dei dati dei servizi finanziari transfrontalieri, e standard etici per l’intelligenza artificiale (v. notiziegeopolitiche.net del 23 aprile 2021). In particolare, per un programma di espansione della tecnologia dell’apprendimento da remoto – reso necessario dalla pandemia ma estensibile nelle molte realtà di sottosviluppo – Singapore ha acquisito una specifica esperienza durante le precedenti crisi sanitarie, e potrebbe guidare un tale sforzo in ambito regionale o globale. E ancora, il Costa Rica, già emerso come leader nell’ecoturismo e nella tutela ambientale, potrebbe farsi promotore di iniziative in questi campi. Mentre, dopo il conflitto decennale terminato nel 2016, la Colombia, diventata leader nel processo di pacificazione, potrebbe promuoverlo in altre aree.
Per iniziative di più ampio respiro per la stabilizzazione delle principali aree di crisi, Washington potrebbe incoraggiare singoli “piccoli” paesi come il Bahrein o gli Emirati Arabi Uniti, o anche un paese non arabo come Cipro, a stabilire un meccanismo di coordinamento volto ad approfondire gli Accordi di Abramo su elementi chiave, anche in ambito economico e della sicurezza.
La conclusione dell’analisi Cohen e Fontaine, infine, è davvero incisiva, laddove per sostenere il ruolo che gli Stati Uniti potranno svolgere in favore dei “piccoli” Stati protagonisti del nuovo “microlateralismo”, richiamano un classico del pensiero democratico americano, quell’ Alexis de Tocqueville che nell’ opera “La democrazia in America” (1835, 1840) afferma l’importanza dell’ “arte di associarsi” che va intesa come “la scienza madre” della democrazia: Tocqueville spiega che «gli americani di ogni età, di ogni condizione, di ogni tendenza» hanno imparato a difendersi dai pericoli della democrazia – dall’eccessivo individualismo, dalla tirannia della maggioranza e dagli effetti opprimenti del centralismo amministrativo – semplicemente perché “si uniscono continuamente”.

* Membro della International Law Association, Associazione Italiana Giuristi Europei, Associazione Italiana di Sociologia.