Gli USA e le ingerenze esterne

di Giovanni Ciprotti

Tra meno di due mesi sapremo se gli elettori statunitensi confermeranno la loro fiducia in Donald Trump oppure se alla Casa Bianca tornerà a sedere un democratico. Si tratta di una questione che non riguarda soltanto i cittadini statunitensi. In qualche misura coinvolge qualsiasi persona sulla Terra, perché gli effetti di un’azione decisa a Washington possono riverberarsi sulle sorti dei cittadini di ogni Paese al mondo in misura sensibilmente maggiore rispetto a iniziative analoghe intraprese da qualsiasi altra Nazione.
È quindi comprensibile l’interesse che le elezioni presidenziali suscitano presso tutti i governi e le pubbliche opinioni mondiali. Ed è altrettanto ragionevole che in ogni Paese, a seconda del grado di alleanza o inimicizia con gli Stati Uniti, il governo locale auspichi che prevalga il candidato democratico o quello repubblicano in funzione del maggior vantaggio, o almeno del minor danno possibile, che potrebbe derivare a seconda di chi dovesse vincere la corsa alla Casa Bianca.
Accade negli Stati del continente americano, nelle cancellerie d’Europa, in Africa e in Asia. Quello che succede negli USA ogni quattro anni a novembre ha importanza a Berlino, Parigi e Roma, dalla prospettiva di Paesi alleati. Ma anche Mosca e Pechino sono stati sempre interessati alle vicende statunitensi: lo erano durante la guerra fredda, da nemici; lo sono ancora oggi, da rivali agguerriti, che potrebbero tornare nemici.
Da qualche anno nel dibattito interno che accompagna la corsa alla Casa Bianca si è imposto un nuovo tema: l’ingerenza di altri Paesi, Russia in testa, nelle elezioni mediante attacchi informatici e campagne di disinformazione sui social media per screditare alcuni candidati o sostenerne altri. Donald Trump è stato coinvolto in prima persona: secondo i democratici sarebbe stato avvantaggiato dalle azioni di disturbo russe; per i repubblicani sarebbe stato penalizzato dagli stessi meccanismi esterni, attivati a sua insaputa.
Il risultato è stato un coro bipartisan di accuse alla Russia per aver tentato di condizionare il voto statunitense usando metodi illeciti, accuse recentemente ribadite anche durante la campagna per le presidenziali 2020. C’è chi si appella agli organismi internazionali per la violazione delle norme di diritto internazional, un comportamento quanto meno bizzarro in un Paese che ha ferocemente osteggiato la Corte Internazionale di Giustizia per non subire condizionamenti esterni, e chi preferisce invocare l’applicazione unilaterale di sanzioni economiche.
Lo sdegno delle istituzioni, dei partiti e della pubblica opinione statunitensi è, in punta di diritto, condivisibile. Peccato che questo sentimento si registri in un Paese, gli Stati Uniti, che dall’enunciazione della Dottrina Monroe nel 1823 in poi ha interferito più di ogni altro Paese al mondo nelle dinamiche interne di molti stati americani, africani, asiatici ed europei: campagne di disinformazione, pressioni sul piano economico, finanziamenti occulti a beneficio di associazioni, partiti o singoli esponenti politici graditi a Washington, operazioni segrete (le cosiddette “covert operations” della CIA) e, quando il repertorio “morbido” non sortiva l’esito sperato, colpi di stato.
Tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale sono stati numerosi i casi di intervento armato statunitensi in America Latina, considerato da Washington il proprio “cortile di casa”, per riprendere un’efficace espressione usata da Noam Chomsky: Panama, Honduras, Nicaragua, Messico, Haiti, Repubblica Dominicana.
Nel 1901 il Congresso americano approvò l’emendamento Platt, che definiva le condizioni per il ritiro delle truppe statunitensi da Cuba dopo la guerra ispano-americana del 1898. L’emendamento stabiliva, tra i diversi vincoli, il diritto di intervento degli USA per mantenere “l’ordine e l’indipendenza cubana” (“the government of Cuba consents that the United States may exercise the right to intervene for the preservation of Cuban independence, the maintenance of a government adequate for the protection of life, property, and individual liberty”) e la vendita o l’affitto agli Stati Uniti di territorio cubano ove installare basi militari, necessarie per proteggere il popolo cubano e garantire l’indipendenza di Cuba (“to enable the United States to maintain the independence of Cuba, and to protect the people thereof, as well as for its own defense, the government of Cuba will sell or lease to the United States lands necessary for coaling or naval stations”) . L’emendamento Platt fu prontamente integrato nella nuova costituzione cubana: un caso rarissimo di interferenza esterna costituzionalizzata.
Con lo scoppio della Guerra fredda gli strumenti si diversificarono e le occasioni di intervento aumentarono. Un elenco completo sarebbe troppo lungo e quindi, per brevità, ricordiamo soltanto alcune vicende, diverse tra loro per il contesto e la soluzione adottata.
Nei primi anni Cinquanta dello scorso secolo lo Psycological Strategy Board (PSB) del Dipartimento di Stato attivò in Italia e in Francia due programmi di guerra psicologica, chiamati Clydesdale e Demagnetize rispettivamente, per condizionare la politica interna dei due paesi europei alleati in funzione anticomunista.
La minaccia del movimento comunista internazionale rendeva accettabile qualsiasi pratica di lotta politica, ma anche quando il pericolo rosso non era in vista, la protezione degli interessi statunitensi giustificava persino l’opzione estrema.
Nel 1953 un colpo di stato organizzato dai servizi segreti britannici e statunitensi destituì il premier iraniano Mohammed Mossadeq, democraticamente eletto ma sgradito a Washington e Londra per aver deciso la nazionalizzazione della compagnia petrolifera Anglo-Iranian Oil Company, che garantiva alla Gran Bretagna guadagni cospicui a scapito delle finanze iraniane.
L’anno successivo, in Guatemala, la CIA di Allen Dulles organizzò un colpo di stato con cui venne deposto il presidente Jacobo Arbenz, anch’egli democraticamente eletto. Purtroppo il presidente Arbenz aveva requisito terre incolte guatemalteche alla United Fruit Company (con indennizzo da calcolare sulla base del valore fiscale dichiarato dalla proprietà), multinazionale statunitense il cui potere economico condizionava da anni la politica interna guatemalteca.
Venti anni dopo sarà il Cile di Salvador Allende a sperimentare la capacità di ingerenza della CIA: malgrado i finanziamenti di Langley ai suoi oppositori, Allende era stato regolarmente eletto nel 1970, ma era rimasto nel mirino di Washington. Nel 1973 un colpo di stato organizzato dai servizi segreti statunitensi sostituì Allende (che nel drammatico scontro perse la vita) con il più affidabile generale Augusto Pinochet, il quale fino al 1990 avrebbe governato il Paese con metodi sanguinari e sarebbe in seguito stato accusato di crimini contro l’umanità. Un giudizio evitato in parte grazie all’immunità parlamentare e in parte per motivi di salute negli ultimi anni di vita.
Gli Stati Uniti hanno ragione nel denunciare i tentativi di interferenza esterna nel loro processo elettorale, ma nel farlo dovrebbero ricordare le innumerevoli volte in cui si sono trovati a giocare l’opposto ruolo di disturbatori, con mezzi e determinazione di gran lunga superiori.