Gli Usa sanzioneranno anche l’Italia se comprerà petrolio iraniano

Dopo il picco di aprile cala il prezzo del petrolio.

di Enrico Oliari

A partire da ieri l’Italia, ma anche la Grecia, il Giappone, l’India, la Corea del Sud, la Turchia, Taiwan e la Cina, non potranno più godere delle esenzioni Usa sul blocco dell’importazione di petrolio dall’Iran. Come spiegato dal presidente Donald Trump, chi non si adeguerà allo stop dell’importazione di greggio rincorrerà nelle sezioni degli Stati Uniti. Scopo dell’iniziativa della Casa Bianca è quello di “portare a zero le esportazioni di petrolio dell’Iran e quindi negare al regime la sua prima fonte di reddito”, ma già il ministro del Petrolio del governo di Teheran, Bijan Zangeneh, ha fatto sapere che l’Iran “ricorrerà a nuove modalità per vendere il suo greggio”. Dalla Conferenza internazionale del petrolio e del gas tenutasi in questi giorni a Teheran, Zangeneh ha spiegato che La primaria priorità dell’industria petrolifera nazionale consiste nel mantenere i livelli di esportazione del greggio iraniano”, ed ha fatto notare che “ci sono nuovi metodi per vendere il greggio che sono inseriti nell’agenda del governo”.
L’iniziativa della Casa bianca è comunque una mazzata per l’economia iraniana, specie in questo periodo in cui il rial, la moneta nazionale, ha subito una forte svalutazione. Tuttavia è bene ricordare che gli iraniani sono rimasti in piedi nonostante decenni di durissime sanzioni, ed il presidente Hassan Rohani ha affermato da Kirmansha, dove si trovava per l’inaugurazione di una centrale idroelettrica, che “Se arriveranno meno soldi dalle vendite del petrolio provvederemo a sostituirle con altre risorse”, e che “gli annunci americani non hanno alcun fondamento perché noi conosciamo la regione e sappiamo che la forza e la capacità dell’Iran è superiore”.
Dopo aver abbandonato l’accordo sul nucleare iraniano (Jpcoa) sottoscritto nel 2015 dal suo predecessore Barak Obama, Trump, che è stato eletto grazie al sostegno fondamentale delle potenti lobby sioniste statunitensi, sta tentando di isolare la Repubblica Islamica facendo pressione sugli alleati. L’occasione per recedere dal Jpcoa, iniziativa comunque non seguita dagli altri paesi a cominciare dall’Unione Europea, gli era arrivata nel settembre 2017, quando gli iraniani avevano testato “con successo” un missile “Khorramshahr”, con una gittata di 2mila km. Si trattava di un missile convenzionale e come tale escluso dall’accordo sul nucleare, ma per Trump era il casus che aspettava per imporre sanzioni e fare pressioni sugli alleati. Da notare che gli ispettori dell’Aiea, l’agenzia atomica, hanno sempre confermato il pieno rispetto dell’accordo da parte dell’Iran.
Il comunicato di Washington del 22 aprile riportava tuttavia che gli Usa avevano concordato con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti un aumento della produzione di greggio per compensare la mancanza di forniture dall’Iran, ma Riad ha manifestato una cerca indisponibilità, e subito si sono alzati i prezzi alla pompa, per poi calare con l’ammorbidimento delle posizioni saudite si pressioni della Casa Bianca. Così il Brent è passato dai 74,28 dollari al barile del 22 aprile ai 70,04 di oggi, ed il Wti da 65,80 a 61, 39 dollari al barile.
Fin dall’annuncio della decisione Usa vi erano state proteste dalla Cina, paese che con l’India è tra i principali importatori di petrolio dalla Repubblica Islamica: il portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang aveva detto che il governo cinese si oppone “alle sanzioni unilaterali e alla giurisdizione ad ampio raggio”, e che “proteggerà” gli accordi siglati fra il suo paese e l’Iran in materia di petrolio in quanto “ragionevoli e legittimi”.
Stessa cosa per quanto riguarda la Turchia, paese che ha frizioni in atto con l’amministrazione Trump: il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu aveva respinto “le imposizioni su come condurre i rapporti con i vicini”, ed ha affermato che l’iniziativa di Wasington “non giova alla pace ed alla stabilità regionale”.