Groenlandia. Nel mirino di Trump: ambizioni imperiali o ennesima distrazione?

di Giuseppe Gagliano

L’amministrazione di Donald Trump non smette di sorprendere, e non certo in senso positivo. L’ultima trovata della Casa Bianca, che emerge in questi giorni di maggio 2025, ha il sapore di un’avventura geopolitica tanto audace quanto discutibile: gli Stati Uniti vogliono mettere le mani sulla Groenlandia. Non è la prima volta che Trump manifesta interesse per l’isola, ma ora sembra fare sul serio, ordinando alle agenzie di intelligence americane di concentrarsi su questo territorio e valutando addirittura un’associazione formale. Dietro i proclami e le mosse ufficiali però si intravede un misto di ambizione imperiale, ingenuità strategica e, forse, l’ennesima distrazione per coprire i fallimenti interni.
La notizia è chiara: l’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale, guidato da Tulsi Gabbard, ha diramato un ordine alle principali agenzie di intelligence americane, dalla NSA alla CIA, passando per la Defense Intelligence Agency, per intensificare la raccolta di informazioni sulla Groenlandia. Non si tratta di un interesse casuale: l’ordine, classificato, chiede di analizzare la politica dell’isola e della Danimarca, a cui appartiene, ma anche le dinamiche economiche e sociali, fino alle opinioni degli abitanti sull’America. È evidente che Washington sta preparando il terreno per un’operazione di più ampio respiro, che non si limita a mere curiosità geopolitiche.
Trump non ha mai nascosto il suo desiderio di “acquistare” la Groenlandia, un’idea che aveva già ventilato nel 2019, suscitando reazioni che oscillavano tra l’ilarità e l’indignazione. La Groenlandia, con i suoi 57mila abitanti e il suo status di territorio danese, è un avamposto strategico nel cuore dell’Artico, una regione sempre più cruciale per le risorse naturali e per il controllo delle rotte marittime. Ma la mossa americana non può essere letta solo in chiave strategica: c’è un retrogusto di arroganza, quasi di nostalgia imperiale, in questa pretesa di annettere un territorio che appartiene a un alleato storico come la Danimarca, membro della NATO e partner di lunga data degli Stati Uniti. È davvero questo il modo di trattare un alleato? O forse Trump, con il suo approccio da magnate immobiliare, pensa che tutto, persino la sovranità di un popolo, possa essere comprato con un assegno?
La risposta di Tulsi Gabbard, che accusa chi ha rivelato la notizia di “violare la legge” e “minare la sicurezza nazionale”, non fa che confermare il nervosismo dell’amministrazione. Parlare di “deep state” e di fughe di notizie classificate è un classico del repertorio trumpiano, un modo per spostare l’attenzione dal contenuto della notizia al presunto complotto di chi la riporta. Ma il problema non è chi ha fatto trapelare l’informazione: il problema è la sostanza di ciò che l’amministrazione sta facendo. Concentrare le risorse di intelligence su un alleato come la Danimarca, per di più su un territorio che non ha mai mostrato interesse a diventare americano, solleva interrogativi etici e strategici. È questa la priorità della sicurezza nazionale americana? O siamo di fronte all’ennesima ossessione personale di Trump, trasformata in politica di Stato.
Parallelamente, emergono indiscrezioni su un piano per stabilire un cosiddetto Compact of Free Association (COFA) tra Stati Uniti e Groenlandia, sul modello di quelli già in vigore con alcune nazioni del Pacifico, come Micronesia e Palau. Questi accordi permettono agli Stati Uniti di operare militarmente nei territori associati, in cambio di protezione e servizi essenziali. Detta così, potrebbe sembrare una proposta vantaggiosa. Ma a ben guardare, il COFA è una forma di controllo mascherato, un’eredità di pratiche neocoloniali che garantiscono agli Stati Uniti un’influenza diretta su territori strategici, senza assumersi la piena responsabilità di un’annessione formale. La Groenlandia, che già gode di una significativa autonomia rispetto alla Danimarca, accetterebbe mai un accordo del genere? E soprattutto, i suoi abitanti, cittadini danesi, che idea si stanno facendo di un’America che sembra più interessata a espandere il proprio dominio che a rispettare la loro sovranità?
L’interesse per la Groenlandia non è isolato: si inserisce in un contesto più ampio di competizione nell’Artico, dove Stati Uniti, Russia e Cina si contendono risorse e influenza. La Groenlandia, con le sue immense riserve di minerali rari e la sua posizione strategica, è un obiettivo naturale. Ma la mossa americana rischia di destabilizzare i rapporti con la Danimarca e, più in generale, con l’Europa. La NATO, già messa alla prova dalle tensioni interne e dalla guerra in Ucraina, non ha bisogno di un ulteriore motivo di attrito tra i suoi membri. Trump, con il suo approccio unilaterale, sembra ignorare queste dinamiche, o forse le considera un prezzo accettabile per soddisfare le sue ambizioni.
E poi c’è la questione interna. Gli Stati Uniti, alle prese con divisioni politiche profonde e sfide economiche, hanno davvero bisogno di lanciarsi in un’impresa del genere? L’ossessione per la Groenlandia appare più come una distrazione che come una priorità strategica. Trump, che ama presentarsi come un leader visionario, rischia di trasformarsi in un Don Chisciotte geopolitico, inseguendo un sogno irrealizzabile mentre i problemi reali del suo Paese restano irrisolti.
L’Europa, e in particolare la Danimarca, non può restare a guardare. La Groenlandia non è un terreno di gioco per le ambizioni di Washington, e i suoi abitanti meritano di essere ascoltati, non trattati come pedine in una partita più grande. Ma questa vicenda è anche un monito per l’Europa intera: finché il continente non troverà una voce comune e una capacità di azione autonoma, continuerà a essere teatro delle ambizioni altrui. La Groenlandia oggi è un simbolo di questa vulnerabilità. Domani potrebbe essere un altro territorio, un’altra crisi. È ora che l’Europa smetta di essere spettatrice e inizi a essere protagonista.