Putin corre ai ripari e propone a Trump un accordo di non ingerenza nella politica

Per il Cremlino quel “se anche tu sei d’accordo, condividi!” è diventato un boomerang.

di Enrico Oliari

Il presidente russo Vladimir Putin intende proporre all’amministrazione Usa una sorta di accordo, o meglio di un “reciproco scambio di garanzie”, per prevenire le ingerenze negli affari interni dei rispettivi paesi attraverso hacker ed altre attività tecnologiche. La nota riportata dal Cremlino parla di “scambiarsi in forma mutualmente accettabile reciproche garanzie di non ingerenza negli affari interni, compresi i processi elettorali, anche quando si tratta di metodi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione e mezzi di alta tecnologia”. Putin sta quindi puntando a “un programma di articolate misure per il ripristino della collaborazione russo-americana nella sfera della sicurezza dell’informazione a livello internazionale”.
E’ assai difficile stabilire chi fra i russi e gli americani abbiano, in perfetto stile da Guerra fredda, attuato più ingerenze di ogni genere attraverso la rete, ma di fatto la situazione sta diventando insostenibile per entrambe le potenze.
Negli ultimi tempi la Russia ha lamentato in più occasioni ingerenze da parte degli Usa e dell’occidente in generale su una serie di questioni, dal supporto alla Bielorussia di Lukashenko al caso Navalny, uno dei leader dell’opposizione avvelenato con il Novichock probabilmente all’aeroporto di Tomsk, dove aveva bevuto un tè prima di imbarcarsi, e poi portato in un ospedale di Berlino.
Che però gli hacker russi si diano da fare per influenzare l’opinione pubblica internazionale, spesso con bufale colossali, è cosa arcirisaputa, basti aprire Facebook e vedere i post di falsi profili con immagini artefatte e con la scritta “se anche tu sei d’accordo condividi!”, o “condividi anche tu se sei indignato”.
Simili ingerenze negli Usa hanno avuto un ruolo rilevante nelle presidenziali 2012: è il caso del Russiagate, lo scandalo che si basa sull’hackeraggio russo che ha portato alla luce oltre 20mila mail dei democratici che indicavano un’operazione del comitato centrale del Partito Democratico, che avrebbe dovuto essere neutrale, volta a screditare il candidato alle primarie Bernie Sanders a vantaggio di Hillary Clinton, uno scandalo che fece crollare in breve tempo il vantaggio dell’ex segretario di Stato su Trump di 9 punti.
La pratica dell’hackeraggio a fini politici è di attualità anche nell’attuale campagna per le presidenziali Usa, cosa appurata dall’Fbi e dal Kommersant, il principale quotidiano nazionale russo di temi legati all’economia, il quale ha riportato agli inizi di settembre che su un forum del Darknet russo un anonimo “Gorka9″ aveva postato i dati di milioni di elettori statunitensi, nella fattispecie quali tutti quelli del Michigan e un milione di quelli di Arkansas, Connecticut, North Carolina e Florida.
In agosto il ministero degli Esteri tedesco, guidato da Heiko Maas, ha convocato l’ambasciatore russo a Berlino Sergey Nechaev per esprimere rimostranze ufficiali circa l’attacco hacker che nel 2015 colpì il Bundestag, il Parlamento federale: stando agli inquirenti l’attacco venne mosso da Dmitri Badin, agente del Direttorato principale dell’intelligence russa (Gru), e vennero violati ben 14 server del Bundestag mandando all’aria l’intera piattaforma, e ci vollero diverse settimane per ripristinare la stabilità e la sicurezza.
Il 15 novembre 2017 il The Times ha riportato che erano venuti alla luce 45mila account Twitter riconducibili a utenti russi i quali avevano operato in Gran Bretagna nelle 48 ore precedenti il referendum sulla Brexit del 23 giugno 2016. Il prestigioso quotidiano si era rifatto ad una ricerca realizzata da un team della Swansea University e dell’Università Berkeley della California, la quale aveva reso noto che “i bot erano utilizzati con uno scopo preciso e avevano avuto un certo peso nell’influenzare l’opinione pubblica”, spingendo per il “leave”. Le due università avevano individuato un totale di 160mila account automatici prodotti in Russia.
Il sospetto sul quale stanno indagando gli inquirenti di mezzo mondo (Italia compresa) è che esista in Russia una vera e propria industria che opera attraverso i social per influenzare le politiche dei vari paesi, con partiti stranieri acquistano tale servizio.
Putin tuttavia si è trovato sulla rotta di ritorno del boomerang, poiché più gli hacker russi lavorano all’estero, più viene giustificata l’ingerenza delle altre potenze in Russia. Da qui la sua proposta di un accordo volto a limitare le reciproche ingerenze.
D’altronde quel “se anche tu sei d’accordo, condividi!”, è ormai aria fritta, ed a cascarci sono solo gli sprovveduti.