Haiti. Il Paese dimenticato e lasciato ai signori delle gang

di Giuseppe Gagliano

Le Nazioni Unite hanno deciso di evacuare parte del proprio personale da Port-au-Prince, un possibile punto di non ritorno nella crisi haitiana. L’escalation di violenza da parte delle bande armate, che ora controllano fino al 90% della capitale, non è solo una questione di ordine pubblico, ma il segnale di un collasso sistemico. Haiti, già afflitta da decenni di instabilità politica, si trova oggi ad affrontare una sfida esistenziale: senza un’autorità centrale capace di governare, il Paese rischia di trasformarsi in uno Stato fallito, lasciando spazio a dinamiche di potere criminale e a un caos difficile da contenere.
La crisi di Port-au-Prince è il prodotto di decenni di disfunzioni istituzionali. La polizia nazionale, sotto-finanziata e priva di risorse, è incapace di contrastare la crescente potenza delle gang. Queste ultime non sono semplici organizzazioni criminali, ma attori politici di fatto che controllano porzioni di territorio, risorse economiche e, in alcuni casi, forniscono perfino servizi essenziali a una popolazione abbandonata.
L’assenza di uno Stato funzionante si riflette anche nella fragilità delle istituzioni giudiziarie e legislative, incapaci di garantire legalità o stabilità. Di fronte a una governance centrale pressoché inesistente, le bande si stanno espandendo, approfittando del flusso costante di armi e munizioni provenienti dagli Stati Uniti. L’embargo internazionale, sebbene formalmente in vigore, si dimostra inefficace, evidenziando le debolezze strutturali della cooperazione multilaterale.
La missione di sicurezza internazionale guidata dal Kenya, pur autorizzata dalle Nazioni Unite, si sta dimostrando insufficiente. Con soli 400 agenti di polizia dispiegati sul terreno e risorse limitate, l’intervento appare più simbolico che risolutivo. La comunità internazionale sembra incapace di affrontare la complessità della crisi haitiana, adottando strategie frammentarie e poco coordinate.
Il ritiro parziale del personale delle Nazioni Unite e delle organizzazioni umanitarie, come Medici Senza Frontiere, non fa che aggravare la situazione. Quando anche le forze dell’ordine diventano una minaccia diretta per gli operatori umanitari, come dimostrano i recenti episodi di violenza contro MSF, è chiaro che il livello di deterioramento del contesto locale ha superato la soglia di tollerabilità.
La crisi haitiana non è confinata al Paese. Con oltre 700mila sfollati interni e migliaia di persone in fuga verso i Paesi vicini, Haiti rappresenta un focolaio di instabilità per l’intera regione caraibica. La pressione migratoria verso gli Stati Uniti, Panama e altre nazioni dell’America Latina è destinata ad aumentare, ponendo ulteriori sfide politiche e sociali ai governi della regione.
Inoltre l’assenza di un’autorità centrale efficace e il controllo territoriale da parte delle bande rischiano di trasformare Haiti in un hub per il traffico di droga e armi, amplificando le dinamiche criminali nel bacino caraibico. La connessione tra le gang haitiane e i flussi illegali dagli Stati Uniti evidenzia come la crisi non sia solo un problema interno, ma un nodo geopolitico che richiede un approccio multilaterale più incisivo.
La risposta internazionale alla crisi haitiana è stata finora caratterizzata da un mix di retorica e immobilismo. Le operazioni di sicurezza, pur avendo una dimensione simbolica, non sono state accompagnate da un piano coerente per ricostruire le istituzioni haitiane. La comunità internazionale sembra incapace di andare oltre l’approccio emergenziale, ignorando la necessità di interventi strutturali per affrontare le cause profonde della crisi: povertà endemica, corruzione dilagante e disuguaglianze sociali.
La lezione che emerge da Haiti è chiara: non è possibile risolvere una crisi sistemica attraverso interventi limitati e scollegati. Il Paese ha bisogno di un piano di ricostruzione complessivo, che combini misure di sicurezza immediate con investimenti di lungo termine nelle istituzioni, nell’educazione e nelle infrastrutture.
Haiti, che non è negli interessi geopolitici degli Usa per essere invaso in nome della democrazia e della pace, si trova oggi a un bivio. Senza un intervento deciso e coordinato, il rischio è quello di un collasso totale, con conseguenze devastanti per la popolazione locale e per l’intera regione. La comunità internazionale, inclusa l’America Latina e i principali attori globali, ha il dovere di agire, non solo per contenere la crisi umanitaria, ma per prevenire che Haiti diventi un epicentro di instabilità permanente.
Il tempo stringe e l’opportunità di invertire la rotta si fa sempre più esile. Ma una cosa è certa: ignorare la crisi haitiana oggi significa prepararsi a gestire un disastro ben più grande domani.