I “doppi standard” nella politica estera Usa

di Giovanni Ciprotti

Il 27 novembre scorso lo scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh-Mahabadi è stato ucciso in un attentato a Damavand, una località a poche decine di chilometri da Teheran.
L’Iran ha puntato il dito contro i servizi segreti israeliani, che avrebbero organizzato l’attentato per eliminare uno degli scienziati sospettati di essere a capo del programma nucleare iraniano.
In un tweet pubblicato il giorno stesso dell’attentato, il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha scritto di “seri indizi sul ruolo di Israele” e lanciato un appello: “L’Iran chiede alla comunità internazionale, e in particolare all’Unione Europea, di porre fine ai suoi vergognosi doppi standard e condannare questo atto di terrorismo di stato”.
Nella dichiarazione di Zarif è riconoscibile il detto “parlare a nuora perché suocera intenda”: la nuora è l’Unione Europea, mentre la suocera sono probabilmente gli Stati Uniti. Lo suggerisce l’esplicito riferimento ai “doppi standard”: già altre volte, in passato, la Casa Bianca è stata accusata di adottare due pesi e due misure in politica estera.
Nel novembre 1979 l’accusa fu rivolta addirittura dall’interno, per mano di una docente di scienze politiche e successivamente diplomatica statunitense, con un articolo dal titolo: “Dictatorships & double standards”.
Secondo l’autrice, Jeane J. Kirkpatrick, l’amministrazione Carter aveva adottato una strategia incoerente nei confronti di due stati, l’Iran e il Nicaragua, nei quali proprio nel 1979 si erano verificati due cambi di regime: in Iran il lungo regno dello scià Reza Pahlavi era stato rimpiazzato dalla repubblica islamica instaurata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini; in Nicaragua il dittatore Anastasio Somoza era stato spodestato dal movimento sandinista, di chiara ispirazione marxista. L’atteggiamento accomodante del presidente Jimmy Carter, a detta della Kirkpatrick, aveva favorito l’instaurazione di due nuovi regimi entrambi ostili agli Stati Uniti (“it – l’amministrazione USA – actively collaborated in the replacement of moderate autocrats friendly to American interests with less friendly autocrats of extremist persuasion”).
Le principali responsabilità dell’amministrazione Carter erano, si leggeva nell’articolo, l’insufficiente difesa degli interessi strategici ed economici degli USA e l’adozione di due pesi e due misure (i “doppi standard”, appunto), in quanto avrebbe agevolato l’instaurazione di regimi autoritari (il regime sandinista in Nicaragua e quello khomeinista in Iran) purché non di destra.
La Kirkpatrick riconosceva gli aspetti negativi dei governanti deposti, Pahlavi e Somoza: entrambi non erano stati scelti tramite libere elezioni, entrambi avevano accumulato ingenti fortune stornando denaro pubblico dalle casse del loro paese ed entrambi avevano invocato la legge marziale per arrestare, esiliare e torturare i loro oppositori. Tuttavia, malgrado questi loro “difetti”, erano indubbiamente amici ed alleati degli Stati Uniti (“they were positively friendly to the U.S., sending their sons and others to be educated in our universities, voting with us in the United Nations, and regularly supporting American interests and positions even when these entailed personal and political cost”). In tempi più recenti avrebbe probabilmente detto: sono alleati senza se e senza ma!
In quegli anni il presidente Carter aveva abbandonato la rigida interpretazione delle dinamiche internazionali attraverso la lente ideologica della Guerra Fredda ed inaugurato una politica di promozione dei diritti umani. La nuova linea aveva condotto ad un raffreddamento dei rapporti con alcuni regimi autoritari, come l’Iran dello scià o il Nicaragua di Somoza, per i quali il comprovato anti-comunismo non bastava più a compensare il livello di oppressione della popolazione e repressione delle voci dissenzienti, divenuto intollerabile nella valutazione di Washington.
Nella sua arringa contro l’amministrazione democratica del tempo, la Kirkpatrick commise in qualche misura l’errore opposto. A suo giudizio, i regimi autoritari di destra erano preferibili a quelli rivoluzionari di sinistra perché intrinsecamente meno repressivi, potevano evolvere con maggiore probabilità verso sistemi democratici ed erano più compatibili con gli interessi degli Stati Uniti (“right-wing autocracies do sometimes evolve into democracies” (…) “traditional authoritarian governments are less repressive than revolutionary autocracies, that they are more susceptible of liberalization, and that they are more compatible with U.S. interests”).
La sottolineatura circa la compatibilità dei regimi autoritari di destra con gli interessi degli Stati Uniti e la comprovata lealtà dei loro leader autocratici (“tested friend such as the Shah”) avrebbe dovuto comportare una sorta di doppio standard al contrario rispetto a quello di cui era accusato il Presidente Carter (“not like a man who abhors autocrats but like one who abhors only right-wing autocrats”): lo scarso o inesistente rispetto delle regole democratiche e dei diritti umani poteva essere trascurato, mentre il criterio guida per decidere se sostenere un regime autoritario e repressivo poteva e doveva essere il grado di lealtà a Washington.
Il saggio della Kirkpatrick tentava di tenere insieme il comprensibile obiettivo di difendere gli interessi strategici statunitensi con l’affermazione secondo la quale i regimi autoritari di destra erano intrinsecamente meno brutali e repressivi di quelli di sinistra (“Generally speaking, traditional autocrats tolerate social inequities, brutality, and poverty while revolutionary autocracies create them”).
Una tesi interessante, ma che non riusciva a spiegare lo stato di terrore instaurato da molti regimi di destra in America latina negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando il mantenimento dell’ordine pubblico era affidato ai famigerati “squadroni della morte”, dal Cile del generale Pinochet ad Haiti di “Papa doc” Duvalier.
Tuttavia, indipendentemente dalla validità del modello interpretativo proposto da Jeane Kirkpatrick, la politica estera statunitense ha spesso avuto difficoltà a conciliare la cura dell’interesse nazionale con la difesa dei principi di libertà e progresso di cui si dichiarava portatrice e custode. A seconda del colore dell’amministrazione in carica, l’ago della bilancia poteva pendere in misura maggiore o minore verso una categoria di regimi ma non sempre si riusciva ad evitare comportamenti incoerenti.
Accade anche oggi. E’ sufficiente osservare la differenza di trattamento riservato da Washington all’Iran e all’Arabia Saudita, ad esempio. L’amministrazione Trump considera l’Iran la nazione più pericolosa al mondo accusandola di sostenere il terrorismo internazionale di matrice islamica (che però è prevalentemente di origine sunnita) e intrattiene ottimi rapporti con l’Arabia Saudita, glissando sui finanziamenti che dall’Arabia partono in direzione di forze jihadiste operative nello scacchiere mediorientale o sui bombardamenti indiscriminati dell’aviazione saudita nello Yemen.
Dal prossimo 20 gennaio alla Casa Bianca ci sarà un nuovo padrone di casa, il democratico Joe Biden. Durante la campagna elettorale per le presidenziali 2020 si è parlato molto della pandemia, soprattutto da parte di Biden per attaccare l’operato del presidente in carica, e dei temi economici, sui quali Trump poteva vantare qualche successo personale. La politica estera è rimasta molto defilata, ma nei prossimi mesi, una volta superata la fase critica del Covid-19, a Washington sarà necessario tornare a parlare di relazioni internazionali. Se vorrà porre rimedio agli squilibri causati dalla schizofrenica politica estera di Trump, il futuro presidente dovrà innanzitutto evitare il più possibile di agire secondo “doppi standard”. Potrebbe essere un modo per restituire agli Stati Uniti il prestigio internazionale perduto dagli Usa negli ultimi quattro anni.