Il “fascino” dello Stato Islamico

di Dario Rivolta *-

Isis milizianiNon passa giorno senza che qualche nuovo (o vecchio) movimento terrorista islamico non dichiari la propria affiliazione allo Stato Islamico. Tra gli ultimi, in Nigeria il famigerato Boko Haram. La stessa cosa era però già successa in Algeria dove Jund al-Khalifa si è staccato da al-Qaida nel Maghreb, così come Ansaar Beit al-Maqdis ha fatto in Egitto, e Abu Sayaf nelle Filippine. Anche nel Daghestan, in Libia ed in Pakistan è avvenuto uguale fenomeno. Non ci sarà quindi da stupirsi se altri ancora contribuiranno ad ingrossare le fila di quello che sembra essere il gruppo terrorista più feroce e di maggior successo.
Ma perché, ci si chiede, Abu Bakr al-Baghdadi esercita tutta questa forza di attrazione? Perché, nonostante la crudeltà disumana dimostrata, sempre più fanatici si uniscono al gruppo?
Sembrerà assurdo, ma è proprio la spregiudicatezza con cui vengono commessi atroci omicidi e la grande abilità mediatica con cui li mostrano al mondo a galvanizzare ed attirare i nuovi aderenti. Ciò che motiva costoro è una visione trascendentale della lotta che stanno combattendo e, come tutti i fanatici religiosi di ogni epoca e di ogni dio, il dimostrare sprezzo delle convenzioni e dei comportamenti altrui suona alle loro orecchie come una conferma di superiorità rispetto a chi non possiede la “vera” fede e rimane quindi schiavo della meschina quotidianità. A spingerli, magari fino al suicidio, non è solamente il premio del paradiso che li aspetta: è la loro certezza che esista una sola verità, quella del loro Dio, e che essa va imposta con ogni mezzo. Ai loro occhi, così come lo era agli occhi degli inquisitori cristiani nei secoli scorsi, chi non crede “correttamente” è uno strumento del maligno e va quindi punito, ucciso o, nel migliore dei casi, asservito come schiavo.
al-Qaida aveva attirato nel passato le simpatie di questi disadattati perché il successo avuto con l’abbattimento delle torri gemelle e la minaccia di continuare in azioni simili aveva fatto credere che la “vittoria” fosse vicina. La forte reazione di tutto il mondo civile e lo smantellamento di molte unità terroristiche suggellato dalla uccisione di Osama Bin Laden aveva tuttavia spinto molti seguaci a dubitare delle capacità dell’organizzazione. Tanti giovani terroristi, non rendendosi conto fino in fondo delle difficoltà operative incontrate, hanno allora cominciato a criticare i capi della cellula terroristica accusandoli di incapacità e di inazione. Da qui le scissioni che si sono indirizzate, sull’onda dei successi territoriali in Siria ed in Iraq, verso l’autoproclamato Stato Islamico
Chiaramente non si deve pensare che sia la stessa organizzazione basata a Raqqa e Mosul ad espandersi logisticamente. Nella stragrange maggioranza dei casi non esiste alcun collegamento fisico tra l’originale e gli emuli che si dichiarano affiliati. E’ una sorta di franchising spontaneo anche se, naturalmente, giudicato benvenuto dal “califfo”.
Davanti a questo fenomeno, l’errore peggiore che potremmo fare è quello di fare di ogni erba un fascio e considerare ogni seguace delle religione islamica come un terrorista. Al contrario, come succede in ogni religione monoteista, i fanatici intolleranti sono pur sempre una minoranza mentre la maggior parte dei fedeli, anche inconsapevolmente, vive il rapporto con la propria religione in modo molto più rilassato. Se volessimo descrivere teologicamente l’atteggiamento più diffuso tra i seguaci delle principali religioni mondiali saremmo portati a definirli piuttosto come teisti o, in qualche caso, solo dei mistici.
Il fatto, poi, che gli attentati colpiscano soprattutto altri fedeli musulmani, colpiscano moschee e, indifferentemente donne e bambini, allontana ancora di più la stragrande maggioranza dei credenti. Non a caso il sedicente Stato Islamico si configura sempre di più come una setta chiusa che punisce, perfino con la morte, chiunque si penta di aver aderito e voglia staccarsene. Non sono pochi infatti coloro che, arrivati dall’estero con illusioni idealistiche, han dovuto fare i conti con una realtà sanguinaria perfino superiore alla propria immaginazione e hanno creduto di potersene tranquillamente dissociarsi, salvo essere uccisi come spie o traditori.
A tutto ciò va aggiunto che le società islamiche sono nel corso di un lento (e inavvertito dai più) processo di secolarizzazione, esattamente come è accaduto nel mondo cristiano. Si spiega anche così il disorientamento di alcuni che reagiscono richiamandosi a “valori perduti” e accusando l’occidente di averli “corrotti”. Attribuire però a tutti i musulmani un’identità unica e magari accomunarli con i volgari terroristi finirebbe con lo spingerli, involontariamente, proprio a identificarsi, in un modo o nell’altro, con una “diversità” da noi che li allontanerebbe (o ne ritarderebbe il processo storico) ancora di più dal nostro mondo ributtandoli verso una realtà che, piaccia o non piaccia, è storicamente destinata a cambiare.
In altre parole, non è contrapponendo una presunta identità cristiana a quella islamica che si supererà la crisi attuale dei rapporti tra queste due antiche civiltà. Al contrario, anche se ci risulterà difficile e richiederà molto tempo, è con il dialogo da mantenere aperto e con i valori della laicità della politica che si sconfiggerà il terrorismo. Se crediamo davvero che la nostra cultura sia “superiore” (qualcuno lo disse anche a sproposito) sforziamoci di guardare a lungo termine, senza farci spaventare da fatti contingenti ma, storicamente, passeggeri.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.