Il mondo nell’era Biden

di Marco Corno

Quattro anni fa scrissi il mio primo articolo per la redazione dal titolo: “Il mondo nell’era di Trump” in cui analizzavo come si sarebbe evoluto il mondo durante gli anni dell’amministrazione del Tycoon. Adesso con questo nuovo articolo si intende non solo fare nuovi pronostici ma anche evidenziare quali previsioni si sono rilevate giuste e quali sbagliate, premettendo che la pandemia di Covid-19 è stata del tutto inaspettata.

Negli ultimi quattro anni il mondo ha conosciuto sempre di più una forte destabilizzazione e frammentazione accentuata dalla pandemia di Covid-19, che ha accelerato processi geopolitici in corso già da parecchi anni creando nuovi poli di potere che mettono sotto pressione l’egemonia americana nel mondo sia internamente che esternamente.
La baldanza dell’amministrazione Trump ha generato effetti che hanno acuito diatribe interne alla società americana già in evoluzione da parecchi anni. I dati delle elezioni presidenziali del 2020 sono un riflesso di questi fenomeni in cui si è assistito alla trasformazione del “trumpismo” da fenomeno puramente di intrattenimento a fenomeno politico-sociale in cui una larga fetta del corpo elettorale americano si è identificato, come dimostrano gli oltre 71 milioni di elettori che hanno votato per lo showman diventato lo sconfitto più vincente della storia americana. Sono statele elezioni dei record anche per i numeri del candidato vincitore Biden, eletto con più di 80 milioni di voti, diventando così il presidente più votato e allo stesso tempo più anziano della storia degli USA. Ma, al di là delle questioni meramente elettorali e di numeri, la vittoria di Biden ha un significato molto profondo ed è un segnale di come Washington si muoverà in politica estera nei prossimi anni.
Biden è l’uomo chiamato a risanare le ferite che affliggono la società americana specialmente dopo i fatti inaspettati di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, che hanno compromesso l’immagine ideologica della super potenza nel mondo. L’ex vicepresidente di Obama è infatti un uomo di esperienza che possiede grandi conoscenze della “macchina istituzionale” americana e che, con la sua personale storia, potrebbe diventare un “catalizzatore di forze sociali” della politica nazionale, come di fatto è avvenuto con i numeri al Senato che hanno permesso al Partito Democratico di conquistarne la maggioranza grazie al voto di alcuni repubblicani, risultato non affatto scontato. Biden, all’interno di questa narrazione storica, potrebbe essere il nuovo Franklin Delano Roosevelt che dovrà “guidare” la propria nazione in uno dei periodi più difficili dal secondo conflitto mondiale, nella consapevolezza che l’unità nazionale è funzionale al mantenimento dell’egemonia americana che porterà Washington obtorto collo ad aumentare la propria presenza nel mondo onde evitare in questo nuovo decennio l’ascesa di nuove super potenze e non. L’amministrazione Biden “abbraccia” anch’essa lo slogan “American First”, però nel senso, a differenza di Donald Trump, di America garante di uno status quo globale che permetta agli USA di rimanere l’unica super potenza mondiale e fare di tutto perché ciò non cambi. Non è un caso che il rilancio dell’immagine americana verso gli alleati con la valorizzazione di ideali come i diritti umani e la democrazia siano funzionali a compattare il mondo occidentale che avrà nell’Europa, nella Russia, nel Medio Oriente e nell’Asia i suoi obbiettivi principali nei prossimi anni.

Per quanto riguarda il “vecchio mondo”, a Washington interessa riformare l’Alleanza Atlantica e la NATO (il suo braccio militare) coinvolgendo maggiormente i propri alleati nelle spese militari. Infatti a Biden interessa l’Europa e l’atlantismo ma non l’Unione Europa contro la quale continuerà a perseguire una politica di destabilizzazione volta ad accentuare le diatribe esistenti tra Europa occidentale e Europa orientale, avvalendosi anche dell’impatto della Brexit sul progetto europeo al fine di coinvolgere maggiormente il Regno Unito nell’implementazione di una sfera di influenza anglosassone con gli stati russofobi, come Polonia e paesi baltici, per indebolire l’asse franco-tedesco e ostracizzare la Russia.
Nel precedente articolo si era intuito con successo che negli anni dell’amministrazione Trump in Ucraina sarebbe stata accettata una spartizione de facto del paese in due aree di influenza: una filo-occidentale e una filo-russa. Adesso però questo equilibrio molto probabilmente si romperà e si assisterà all’acuirsi di nuove tensioni non solo in Ucraina ma anche in Bielorussia e Moldavia. La corrente “interventista liberale” del governo Biden considera la Russia una minaccia ma allo stesso tempo una potenza contro la quale adottare una vera e propria politica del roll-back, volta a costringere Mosca ad allearsi con Washington in funzione anticinese. Questo ne determinerà un vero e proprio inasprimento dei conflitti nell’ex spazio sovietico tra Mosca, Londra e Washington con diverse escalation molto pericolose, che avranno come crush-zone quell’area che Brzezinski, il principale ideatore della visione “russofoba” del deep state americano, ha definito “arco di crisi”, ovvero una lunga “faglia” che partendo dal Mar Baltico passa per il Mar Nero e arriva fino al Caucaso. Ne conseguirà la nascita di un nuovo “Great Game” tra Russia da una parte e USA e Gran Bretagna dall’altra per il controllo del blocco Mar Baltico-Mar Nero, molto simile a quello combattuto tra impero russo e impero britannico nel corso del XIX secolo per il controllo del continente asiatico.

(Mappa: d-maps.com).

Altro teatro in cui Washington sarà chiamata a prendere scelte importanti è il Medio Oriente e in particolare il cliché turco e iraniano. Nel precedente articolo si era previsto che un disinteresse americano, almeno di facciata, dalla regione avrebbe provocato un aumento dell’espansione di influenza turca fino al Mar Mediterraneo e al Nord Africa e così è avvenuto permettendo ad Ankara di assumere sempre di più i connotati di una potenza regionale tout court sconvolgendo anche gli equilibri interni all’Alleanza Atlantica (specialmente per le controversie con Grecia e Francia nel 2019-2020) e creando una sfera di influenza ormai estesa dal Caucaso alla Libia, passando per il Siraq e per il Mediterraneo orientale. Nei prossimi anni la politica estera turca potrebbe volgere lo sguardo verso i Balcani all’interno dei quali sta acquisendo sempre più autorevolezza soprattutto in Bosnia-Erzegovina e Albania e non è da escludere che ciò provocherà una nuova proxy war con la Russia (simile a quella combattuta lo scorso autunno tra Armenia e Azerbaijan) per l’influenza dell’area in cui Mosca si schiererà con la Serbia mentre la Turchia con la Bosnia e l’Albania, senza contare che un simile evento coinvolgerebbe direttamente anche gli USA.
Quello che invece non era stato minimamente previsto era la crisi storica delle relazioni diplomatiche con l’Iran. In quattro anni “la politica della massima pressione” dell’amministrazione Trump ha causato il raggiungimento del punto più basso della storia dei rapporti tra Washington e Teheran a partire dal ritiro USA dall’accordo nucleare nel 2018, il ripristino di pesanti sanzioni economiche e l’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani il 3 gennaio 2020. Washington ha dichiarato timidamente che intende riaprire un nuovo dialogo con Teheran ma le precondizioni sono troppe da ambo le parti: da un lato Teheran pretende il rientro degli americani per primi nell’accordo, l’eliminazione di tutte le sanzioni economiche e l’accettazione della sfera di influenza persiana nella regione. Dall’altra parte Washington pretende che l’Iran rispetti per primo i limiti pattuiti per l’arricchimento dell’uranio, che rinunci al proprio sistema missilistico e alla propria sfera di influenza nella regione.
Condizioni però troppo alte che generano un’impasse da ambo le parti e che renderà lo sviluppo del dialogo veramente lungo e difficile senza contare la persistenza di una forte pressione israeliana e saudita sulla politica estera degli USA affinché venga impedito la rintegrazione dell’Iran nell’equazione strategica di Washington.
Molto probabilmente si assisterà, qualora si verificasse una riapertura tra Teheran e Washington, la stipula non di un nuovo JCPOA ma di un protocollo aggiuntivo del trattato all’interno del quale la Persia vorrà far pesare a livello negoziale la morte del generale iraniano e di tutti gli scienziati assassinati in circostanze misteriose a titolo di “risarcimento nazionale”.

Donald Trump.
Ma il rebus geopolitico che più di altri influenzerà il balance of power dell’ordine internazionale sarà la rivalità sino-statunitense, considerata da molti la vera grande sfida del XXI secolo. Probabilmente in questi quattro anni di amministrazione Biden la guerra commerciale contro Pechino continuerà e nuove sfide si proiettano all’orizzonte anche con gli stessi alleati nello spazio Indo-Pacifico. Nel precedente articolo si è sottolineato la centralità geopolitica che avrebbe avuto Taiwan nei rapporti tra Pechino e Washington (definendola addirittura la “Cuba del Pacifico”) per le tensioni che sarebbero potute scaturire tra le due super potenze durante l’amministrazione Trump. Ebbene, nonostante in questi anni non siano scoppiate delle nuove crisi degli stretti simili a quelle degli anni’50 del secolo scorso, l’isola di Formosa ha conosciuto una progressiva militarizzazione orbitando sempre di più nella sfera di influenza americana. Questo fa presagire che anche negli anni dell’amministrazione Biden Taipei rimarrà saldamente sotto “l’ombrello americano” e il rischio che possa scoppiare una “crisi missilistica” molto simile a quella di Cuba nel 1962 sarà sempre più una realtà concreta. Infatti Washington è consapevole che Pechino ambisce a riportare Taiwan sotto la piena sovranità nazionale e proprio l’isola di Formosa verrà utilizzata dagli USA per mettere sotto pressione e indebolire le ambizioni cinesi nel Mar Cinese.
Altra questione che diventerà sempre più centrale per Washington nell’Indo-Pacifico sarà il ritorno geopolitico del Giappone nello scacchiere regionale. Infatti per l’amministrazione Biden la rivalità con la Cina ha anche una funzione di metus hostilis al fine di evitare che la super potenza perda il ruolo di maître â penser tra gli alleati asiatici sfruttandone la rivalità storica con il Celeste Impero. In questa prospettiva l’ex vicepresidente teme il modus operandi del Giappone e la sua ascesa a “potenza imperiale”. Per l’amministrazione Biden il rischio è che Tokyo con la scusa della minaccia cinese cerchi di ricoprire il ruolo di deus ex machina del sud-est asiatico portando progressivamente gli USA ad essere considerati dagli altri stati asiatici sempre più marginali nelle vicende dell’Estremo Oriente. Ed è proprio questo uno dei problemi tattici più complessi che Washington dovrà affrontare nei prossimi anni perché se il Giappone dovesse ritornare ad essere una potenza militare tout court allora il rischio per gli USA di trovarsi un nemico-alleato peggiore perfino della Cina sarà molto concreto, specialmente se la “Terra del Sol Levante” riuscisse a vincere con successo le dispute sulle acque territoriali che le permetterebbe di guadagnarsi una proiezione strategica in grado di sottrarre i choke points asiatici al controllo americano come ad esempio lo stretto di Malacca, fondamentale per il commercio del sud- est asiatico in particolare per l’approvvigionamento cinese. In quel caso Washington avrà a disposizione soltanto due opzioni: o allearsi con la Cina in funzione anti-nipponica o cercare di sfruttare l’imperialismo nipponico in funzione anticinese. Forse però questa è una previsione fin troppo di lungo periodo ma quello che è certo è che in questi quattro anni di Biden l’ascesa nipponica nel Pacifico diventerà sempre più centrale all’interno del “Concerto Asiatico”.
Dall’altra parte le tensioni con la Cina continueranno soprattutto in Indocina dove il recente colpo di stato in Myanmar rischia di creare una ulteriore Shatterbelt tra Washington e Pechino con delle ripercussioni importanti in Bangladesh, in India ma anche nella vicina Tailandia dove il malcontento nei confronti del regime militare al potere è sempre più forte e diverse manifestazioni sono in corso già da qualche mese.
Non secondario saranno i rapporti con la Corea del Nord. Sebbene Biden non abbia espresso una posizione chiara a riguardo, il nuovo inquilino della Casa Bianca perseguirà una diplomazia di dialogo con il regime di Pyongyang nella speranza di stipulare un’alleanza con una potenza confinante con la Cina al fine di allargarne il suo contenimento. Ma proprio come l’Iran anche in questo caso le condicio sin qua non sono troppe.

Inoltre, la sfida USA-Cina si proietta e si proietterà ben al di la del continente asiatico coinvolgendo anche quel grande spazio geopolitico che molto analisti chiamano “Mediterraneo Allargato” all’interno del quale le “nuove vie della seta cinese”, sebbene non abbiano conosciuto quell’accelerazione predetta in questi anni, continuano lentamente ma costantemente ad essere costruite tramite infrastrutture portuali e terrestri nel Mar Rosso e nel Mar Mediterraneo, coinvolgendo inevitabilmente gli stati affacciati su questi mari impegnati allo stesso tempo in importanti conflitti civili come in Yemen e dispute regionali come nel Corno d’Africa. Proprio questa parte del continente africano sarà sempre più centrale non soltanto per il conflitto nel Tigrè che affligge l’Etiopia ma soprattutto per le dispute sul controllo delle risorse idriche del Nilo tra Etiopia, Sudan ed Egitto a cui si collegano i confliggenti interessi del tripolarismo Iran-Israele-Turchia.

L’ascesa dell’amministrazione Biden alla Casa Bianca segna l’inizio di una maggiore assertività della politica estera americana nel mondo. Biden è il simbolo di una super potenza che sebbene sia ancora l’egemone mondiale comincia ad essere fortemente in crisi.
“America is back!!” afferma Biden ma tempi duri attendo l’Occidente e la comunità internazionale all’orizzonte.