Il Risiko e la clava

di Gianvito Pipitone

A chiunque sarà capitato di giocare a Risiko una volta nella vita, da giovani o meno giovani. Gioco di strategia, dove le doti di calcolo unite ad una buona dose di fortuna, se combinate in un mix virtuoso, bastavano ad incoronarci stratega, generalissimo o lider maximo, oro colato per il nostro innato senso di orgoglio e smisurata vanagloria, almeno per lo spazio effimero di una fredda serata d’inverno. Ma cosa succederebbe se all’interno di quel magnifico ed innocuo gioco di strategia militare scoprissimo nascosti, in estrema sintesi, i segnali di una malcelata volontà di dominio, il desiderio di onnipotenza o addirittura di violenza morbosa e latente, insite in ciascuno di noi? Esagerato, si dirà. Sicuro, ma non è forse dagli accostamenti più arditi che spesso riusciamo a trovare le migliori piste per la ricerca delle risposte alle nostre domande (troppo spesso) insolute?
Vale più una buona guerra che una cattiva pace, recitava un vecchio adagio. E a ben guardare la guerra è nata con l’uomo, da quando il primate di Odissea 2001 nello spazio ha capito che la clava poteva esser utilizzata come oggetto contundente. Da lì l’innesco fatale della bomba e lo svelamento del meccanismo che ad occhio e croce, pur se a distanza di milioni di anni, si è mantenuto abbastanza intatto. Navigando attraverso i millenni della storia sono cambiate le abitudini, gli usi, i costumi, le diete ed è cambiata persino la forma dell’uomo, la sua conformazione fisica. L’unica cosa fedele a se stessa, la cifra costante dell’uomo, più ancora del concetto astratto di pace, è rimasta la guerra.
Diversa nei modi e uguale a se stessa e soprattutto reale e non astratta… Certo, variano nel tempo la struttura, le strategie, i mezzi, le tecnologie ma Lei, la signora della guerra, sempre quella è rimasta: un assetto, stabile, sicuro, terribilmente rassicurante…
Da tempo immemore l’uomo fa la guerra, utilizzando come pretesto di volta in volta l’offesa o la lesa maestà o la difesa dei diritti per coprire quasi sempre i propri interessi, mascherando insomma con ogni scusa il ricorso alle armi e gli interventi militari e gli eventuali rimorsi (pochi, in realtà) pur di attaccare bottone. Non è un caso che i poemi più antichi che ci sono giunti in tutte le lingue e ad ogni latitudine abbiano come tema la guerra. E non l’amore, o la pace o la speranza, per dire.
Dall’epopea di Gilgamesh del periodo babilonese all’Iliade di Omero, dal Mahābhārata dell’antica India, fino ad arrivare alle Storie di Erodoto che narrano le guerre fra i greci e i persiani, un solo protagonista al centro dello schermo: la guerra. Tanto che, viene da dire, se la moda è l’accettazione di un aspetto o comportamento di una comunità sociale secondo il gusto particolare del momento, non c’è paura di potersi sbagliare: la guerra è sempre di moda.
Andando all’attualità, la settimana scorsa è stata pubblicata un’analisi accurata da parte del Sipri (l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace, con sede a Stoccolma) sullo stato dell’arte dell’industria bellica mondiale. Per capirci, il Sipri sta alla Pace come Greenpeace sta all’Ambiente. Più o meno.
Ebbene, non c’è da stupirsi se l’analisi confermi come di anno in anno i fatturati della guerra continuino a galoppare, non conoscendo di fatto crisi o flessioni negative. Secondo questa analisi, i fatturati dei primi 25 gruppi mondiali produttori di armamenti sono aumentati nel 2019 dell’8,5%.
A farla da padrone sono ancora per il momento le aziende a stelle e strisce, con in testa il colosso Lockeed Martin. A scanso di equivoci quando si parla di industria bellica, gli Usa fanno sempre molto sul serio: fra le 25 società della lista ben 12 sono Usa, con un fatturato complessivo pari al 61% del totale. Sono invece quattro i gruppi cinesi al top e tre sono tra i primi 10, con un fatturato in aumento rispetto al 2018.
Mentre la terza industria bellica, quella Russa si conferma in flessione risentendo forse del taglio alle spese statali. E poi, fra i sei produttori dell’Europa occidentale compresi fra questi best 25, spicca tra gli altri l’italianissima Leonardo-Finmeccanica, che occupa il 12mo posto mondiale (ce lo saremmo mai aspettati?).
Insomma un settore sempre sul pezzo, viene da dire, che non conosce battute d’arresto o arretramenti e che segna anno dopo anno dei passi in avanti importanti in termini di fatturati e di utilizzo della forza lavoro, impiegando nel mondo milioni di persone: dall’ultimo delle reclute dell’esercito fino ad arrivare agli 007 più “sofisticati” in forza alle sempre più decisive intelligence mondiali. Chi non ha mai visto la serie TV Homeland scagli la prima pietra.
C’è un gioco (non saprei come altro definirlo) sul sito internet GlobalFirePower, dove agli amanti degli scenari militari è data la possibilità di poter simulare la guerra fra diversi paesi nel mondo, comparandone gli assetti.
Il sito individua quali sono le potenze più temibili e gli stati che dispongono dell’esercito più forte al mondo prendendo in analisi oltre 50 fattori per determinare il potenziale militare offensivo. L’indice della forza militare (il Power Index), in continuo aggiornamento, tiene conto di fattori quali la disponibilità e la varietà di mezzi e armamenti (unità navali, aerei da combattimento, carri armati, ecc.), il personale militare disponibile, il budget destinato alla difesa e la popolazione totale, l’avanzamento tecnologico della Nazione, le condizioni geopolitiche, industriali e finanziarie, ed ovviamente il numero e il peso degli alleati internazionali. Combinando tutti questi fattori, viene idealizzato per ogni stato un “punteggio”: più il punteggio è uguale a zero, tanto più il potenziale bellico è considerato di prim’ordine.
Il podio, manco a dirlo, spetta alle 3 potenze dominanti Usa, Russia, Cina, esattamente in quest’ordine. Nessuna sorpresa. Seguono staccate l’India, il Giappone e (sorpresa) la Corea del Sud, che si piazzano prima di Francia, Regno Unito e (altra sorpresa) l’Egitto, considerato quindi militarmente il più potente fra i paesi musulmani. Per curiosità l’Italia è 12ma, alle spalle di Brasile e Turchia e appena prima della Germania.
Scorgendo le numerose cifre sul sito alcuni dati saltano all’occhio. Ad esempio, la Corea del Sud che annovera come personale militare complessivo circa 5,5 milioni di addetti, contro quello russo (3,5 mil) e quello statunitense (2,1 milioni). Una enormità se comparato con il dato italiano (357 mila, “soltanto”), anche in rapporto alla sua popolazione. Si segnalano poi paesi che, pur non essendo nelle primissime posizioni per Power index, annoverano fra il personale militare complessivo delle moltitudini importanti, la Corea del Nord (7,5 mil) che risulta però al 25mo posto per “forza militare” e il Vietnam, con 5,5 mil di addetti militari a scapito del suo 22mo posto.
Anche se non si è molto appassionati ai numeri e alle statistiche, ci sono poi dei dati che è impossibile tralasciare. Ad esempio, nella sezione dei velivoli militari complessivi gli Stati Uniti fanno il vuoto (con oltre 13 mila unità, di cui meno della metà da combattimento) mentre la Russia, riesce a contarne solo 4mila. La sorpresa aerea arriva dal Pakistan che con i suoi 4,5mila velivoli risulta essere la flotta aerea militare meglio attrezzata al mondo dopo gli Usa, anche se di questa solo il 10% ha capacità di combattimento. L’Italia, per dire, non supera manco il migliaio, di cui solo la metà “adatta” al combattimento.
Un’altra curiosità: i vecchi cari carri armati di una volta, altrimenti detti tanker o panzer a secondo delle latitudini, continuano a rappresentare il fiore all’occhiello della celebre ex Armata Rossa che ne conta in forza ben 21mila e la Cina (13 mila) con gli Usa, invece, staccati di molto (con “soli” 6mila). Sicura eredità della vecchia Unione Sovietica e indicatore al tempo stesso di un equipaggiamento un po’ retrò che dipende ancora molto dalla sua forza di terra.
Sulle unità navali, invece, si fa notare il guizzo degli ultimi anni della Cina che da potenza terragna, tradizionalmente affetta da talassofobia, sembra in questi ultimi anni aver imboccato la via del mare, proponendosi come più serio concorrente ai Marines americani.
Ma un dato sugli altri colpisce scorgendo queste classifiche complete. Paesi importanti al di fuori della sfera Nato e della sfera occidentale sono presenti con numeri in incremento di anno in anno: Pakistan, Iran, Turchia, Egitto, Corea del Nord. Ora, se si fa una rapida statistica delle maggiori committenze di armamenti militari ai principali paesi produttori, si resta per lo meno perplessi, oltre che sorpresi. Ed è quanto denuncia ad esempio Greenpeace Italia in un dettagliato report pubblicato a luglio di quest’anno.
Greenpeace accusa che, in base alla legge 185/1990, l’Italia non può vendere armi a paesi “in stato di conflitto armato o dove vigono palesi violazioni dei diritti umani o in paesi retti da regimi illiberali ed autoritari”. Si tratta infatti di una vecchia legge risalente al 1990 che clamorosamente, di fatto, risulta del tutto disattesa. E la cosa più paradossale è che a disattenderla è lo Stato stesso che oltre ad essere azionista di Leonardo-Finmeccanica (al 30%) ha anche l’obbligo di legge di autorizzare tutto l’export delle commesse militari del nostro paese. Paradosso dei paradossi.
Così scorgendo la lista dei clienti top che comperano armi dall’Italia, ci si può dunque stupire (allarmare e forse anche arrabbiare) constatando che i due terzi delle commesse militari onorate dalle aziende italiane vanno a finire in paesi fuori dalla Nato, a paesi, cioè, non propriamente “alleati”.
E’ stato così che l’anno scorso l’Egitto è risultato il paese maggiore acquirente dei sistemi militari italiani, seguito dal Turkmenistan. E a parte le commesse dei paesi a basso rischio, perché “alleati” e appartenenti a democrazie conclamate (come Usa Francia Regno Unito e Australia), le prime posizioni vedono come clienti ancora stati autoritari come Turchia, Arabia Saudita, Thailandia, Marocco, India, Nigeria e Pakistan. Paesi quanto meno illiberali cioè, in cui la democrazia non è proprio di casa. Peraltro alcuni di loro destinano una grande parte del Prodotto Interno Lordo proprio alla Difesa: l’Arabia, Oman ed Emirati spendono l’8% e il Pakistan ne destina il 4% (mentre, per capirci, l’Italia destina alla Difesa “solamente” l’1,3% del suo Pil).
Insomma si tratta di paesi già ampiamente militarizzati che potrebbero rappresentare, in un futuro prossimo, potenziali o concrete minacce, in quella malvissuta polveriera che è il Medio Oriente. E quindi? Quindi niente, è il Potere del Business, bellezza, e del dio Denaro, con buona pace del buonsenso, oltre che delle leggi in vigore…
Per carità qua nessuno è così naif da credere che l’Italia o qualsiasi altro paese occidentale e civile debba perseguire a tutti i costi l’obiettivo impensabile di una smilitarizzazione (fra l’altro impossibile, visti gli obblighi nei confronti degli alleati Nato). In un periodo storico di alta tensione fra l’occidente e i vari blocchi dei paesi musulmani, abbassare la guardia sarebbe di certo un suicidio.
Ma, se permettete la citazione, qua nisciunu è manco così fesso da non farsi due calcoli semplici, per comprendere poco dopo che l’industria bellica dei paesi occidentali, spalleggiata dai vari stati sovrani, abbia le proprie convenienze nel mantenimento e nella perpetuazione dei conflitti che attanagliano il nostro malandato pianeta. A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si becca.
Fino a quando tutto questo ci fa stare bene, ovvero fino a quando la guerra è lontana dai teatri occidentali che contano, tutto questo può ancora essere considerato un cinico e disumano gioco al massacro (truce e violento oltre che moralmente inaccettabile, ma sempre un gioco distante). Quando poi un giorno (e speriamo mai) l’Iran con i paesi “canaglia” si stancheranno di giocare la loro parte da sfigati perdenti (senza per forza voler citare la Cina) e cominceranno invece a fare la guerra sul serio (con le armi che noi avremo venduto loro) sarà allora che probabilmente l’occidente sarà costretto a ripensare se stesso e a secoli di un’impostazione culturale sbagliata (oltre che moralmente deprecabile). Ma a quel punto ripensarsi potrebbe non bastare a scongiurare una vera catastrofe. Come mai se ne sono viste.
Ma ovviamente non ci vogliamo pensare perché, per la nostra società occidentale distratta da mille cose, non c’è mai spazio per la guerra quella vera, quella reale, ma solo per l’Armageddon… al cinema e con effetti speciali made in Hollywood. E quindi come stupirsi poi se, ci ritroviamo a dover combattere sempre più negazionisti o revisionisti che, per ignoranza o tornaconto, si lasciano abbindolare così tanto dalle fake news da arrivare persino a dubitare della storicità dell’Olocausto.
E volendo tornare al Risiko da cui tutto era partito. Beh, alla luce di tutto quello che è in ballo, quando si pensa al concetto così ampio, complesso e spaventoso della guerra… mi viene da pensare che nemmeno il rotolare innocuo dei dadini su quel tavolo da gioco, con il mondo diviso a fettine colorate, ci dovrebbe tutto sommato fare dormire sonni tranquilli…
E’ proprio nel momento in cui, attaccando con 10 armate il nemico, ci si stampa addosso quel sorriso ebete di soddisfazione cieca di chi finalmente è riuscito a conquistare la tanto agognata Kamtchatka che… mi torna in mente, stentorea, la cara vecchia clava del film di Kubrick. Alba e insieme tramonto dell’uomo.