Iran, Israele, Stati Uniti e il rischio di un conflitto senza vincitori

di Riccardo Renzi


Il fragile cessate-il-fuoco tra Iran e Israele, mediato dagli Stati Uniti, nasconde tensioni strategiche profonde e irrisolte. L’intervento militare di Israele contro le infrastrutture nucleari iraniane, supportato in parte da raid statunitensi, ha mancato gli obiettivi dichiarati: annientare il programma atomico di Teheran e innescare un possibile cambio di regime. Al contrario, ha riacceso una pericolosa spirale di escalation, aprendo la porta a una guerra asimmetrica potenzialmente disastrosa per tutti gli attori coinvolti. L’Iran, pur colpito duramente, conserva capacità di reazione grazie ai suoi proxy regionali e a una società ancora percorsa da sentimenti nazionalisti. In questo scenario, la vera chiave per evitare l’abisso potrebbe essere un’intesa tra Washington e Mosca, unica potenza in grado di contenere l’ambizione nucleare iraniana. Ma il prezzo politico della pace sarà altissimo.
L’intervento militare israeliano contro le infrastrutture nucleari iraniane, culminato nella guerra dei “dodici giorni”, ha avuto origine in una condizione di stallo strategico. Da anni Israele cerca di impedire che la Repubblica Islamica dell’Iran acquisisca l’arma atomica, considerata un rischio esistenziale per la propria sopravvivenza. Tuttavia, le sue capacità militari, seppur avanzate, si sono rivelate insufficienti per infliggere un colpo risolutivo al programma nucleare iraniano. Le installazioni chiave sono fortificate, disperse e in parte sotterranee. Da qui, la richiesta d’intervento agli Stati Uniti.
Washington ha acconsentito, ma con riserva. I raid americani su tre siti nucleari hanno ritardato, non distrutto, il programma atomico iraniano: lo stesso Pentagono ha stimato un rallentamento di pochi mesi, senza impatto sulle scorte di uranio già arricchito né sulle centrifughe principali. In sostanza, la guerra è stata intrapresa su un presupposto fragile: ottenere un risultato strategico irrealistico, in assenza di un piano per una successiva gestione politica del conflitto.
Israele si è lanciata in un’operazione militare ambiziosa con due obiettivi: disarmare il nemico e, eventualmente, favorire un collasso interno del regime iraniano. Nessuno dei due è stato raggiunto. Il primo, per limiti tecnici e operativi. Il secondo, per la resilienza del tessuto sociale iraniano.
Infatti, se è vero che il regime di Teheran attraversa una delle fasi più critiche della sua storia, con proteste interne, crisi economica e crescente isolamento, è altrettanto vero che la società iraniana si stringe spesso attorno al governo in caso di aggressione esterna. Questo riflesso nazionalista ha finito per rafforzare l’establishment religioso-militare invece di indebolirlo.
Senza la possibilità di invadere l’Iran, né la volontà politica di farlo (da parte degli USA), Israele rischia ora una sconfitta strategica: non ha eliminato la minaccia nucleare, ha rafforzato l’intransigenza iraniana e ha esposto la propria vulnerabilità missilistica. Il tutto in cambio di un fragile cessate-il-fuoco.
L’Iran è un Paese con contraddizioni profonde. Il regime teocratico è logorato da anni di repressione, crisi economica e corruzione. Eppure, non è prossimo al collasso. Gli apparati di sicurezza interni sono ancora solidi e il sistema ha dimostrato una resilienza straordinaria durante decenni di sanzioni e isolamento.
Sul piano esterno, Teheran dispone di una rete di milizie e gruppi alleati, da Hezbollah in Libano agli Houthi nello Yemen, che costituiscono il fulcro della sua strategia di deterrenza asimmetrica. In caso di conflitto prolungato, l’Iran può colpire Israele e interessi statunitensi nella regione per mezzo di attacchi indiretti, sfruttando la frammentazione del Medio Oriente.
Inoltre, il rischio peggiore è proprio quello temuto da Washington: la radicalizzazione del programma nucleare iraniano. Una guerra totale, lungi dal neutralizzare la minaccia atomica, potrebbe fornire a Teheran il pretesto politico per costruire davvero l’arma, magari con l’appoggio tacito di potenze come Russia, Cina o Pakistan.
Uno degli aspetti meno discussi ma strategicamente centrali del dossier iraniano è il legame tra Mosca e Teheran. Il programma nucleare civile iraniano ha radici nella cooperazione con la Russia, e solo Mosca, in quanto garante tecnico e diplomatico, potrebbe oggi esercitare una reale influenza sulla Repubblica Islamica.
Qualsiasi soluzione diplomatica duratura al problema del nucleare iraniano passa per una nuova intesa russo-americana. Ma il clima internazionale – segnato dal gelo post-Ucraina e dal fallimento dei negoziati START – rende improbabile una tale convergenza a breve termine.
Tuttavia, se la pace tra Iran e Israele deve reggere, e se gli USA vogliono evitare di aprire un nuovo fronte simmetrico in Medio Oriente, è Mosca che va coinvolta. A caro prezzo, ovviamente: Putin potrebbe usare la leva iraniana per ottenere concessioni su altri teatri geopolitici, come l’Europa orientale o il Mar Nero.
Per gli USA, la sfida iraniana è un problema da gestire con attenzione chirurgica. Un conflitto diretto con l’Iran comporterebbe un impegno militare massiccio in un momento di stanchezza industriale e di crescente polarizzazione interna. Le risorse necessarie per una guerra convenzionale contro Teheran sottrarrebbero capacità strategiche cruciali in vista di un possibile confronto con la Cina nell’Indo-Pacifico.
Il presidente Trump, pur avendo ordinato attacchi militari significativi, ha dimostrato di volere fortemente una tregua. Le sue parole, “nessuno sa più cosa c… stia facendo”, sono la fotografia di un conflitto che sfugge al controllo, in cui persino gli alleati (Israele) agiscono con margini di autonomia troppo ampi.
La strategia di Trump, basata su una miscela di minaccia e diplomazia muscolare, punta ora a una normalizzazione commerciale con l’Iran e a un accordo sul nucleare. Ma perché ciò accada, serve una road map multilaterale, non imposta unilateralmente da Washington.
L’Europa si è rivelata, ancora una volta, spettatrice di una crisi che si consuma nel proprio immediato vicinato geopolitico. Le accuse tedesche all’Iran suonano ipocrite, se confrontate con i dati sugli interscambi economici tra Berlino e Teheran. Manca una voce comune, manca una strategia autonoma. Nei media internazionali, l’UE è spesso menzionata solo per sarcasmo. Il futuro della regione dipenderà dunque dalle mosse di Washington, Mosca e, in parte, Pechino. Ma anche da un’intuizione politica: un cambio di regime in Iran – se mai avverrà – non potrà essere “importato” dall’esterno né guidato da nostalgie monarchiche. Saranno gli iraniani a determinarne le forme, i tempi e la direzione.
La guerra tra Iran e Israele, con il coinvolgimento indiretto degli USA, non ha vinti né vincitori. È un conflitto che può solo essere congelato, non risolto con la forza. La vera vittoria sarà diplomatica, ma richiederà una ridefinizione delle alleanze globali e un nuovo patto tra le grandi potenze. Se la pace dovesse durare, sarà solo perché ciascuno avrà compreso di non potersi permettere una sconfitta totale. Eppure, proprio da questa consapevolezza può nascere un ordine nuovo. Ma solo se gli Stati Uniti accetteranno che non possono agire da soli, e se Israele comprenderà che la propria sicurezza passa anche attraverso il dialogo con chi può influenzare il nemico: Mosca. Nel Medio Oriente del 2025, la vera guerra è quella per il tempo. Tempo per evitare l’irreparabile. Tempo per costruire una pace che, per una volta, non sia solo una tregua.