
di Giuseppe Lai –
I prossimi colloqui tra l’Iran e gli Stati Uniti sul programma nucleare iraniano non sono una novità nelle relazioni tra i due Paesi. Già nel 1957 lo Scià di Persia Reza Palhavi firmò con gli Stati Uniti un trattato di cooperazione nucleare a scopi pacifici, suscettibile di importanti sviluppi a partire dal 1974 con l’istituzione dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran e l’iniziativa dello Scià di dotare il Paese di 23 reattori. Il progetto si inseriva all’interno di un ampio programma di industrializzazione finalizzato all’indipendenza energetica dell’Iran e all’acquisizione dello status di potenza internazionale. Dalla seconda metà degli anni ’70 gli Stati Uniti cominciarono a nutrire non pochi sospetti sulle ambizioni nucleari iraniane, spinti dalla preoccupazione di possibili implicazioni militari nonostante Teheran, già dal 1968, avesse aderito al Trattato di non proliferazione nucleare. La caduta del regime dello Scià e la nascita della Repubblica Islamica d’Iran nel 1979 determinarono il fallimento degli accordi già presi ma non interruppero il programma nucleare. Nel corso degli anni ’80, infatti, l’Iran avviò con il Pakistan fitti contatti che si rivelarono fondamentali per acquisire le competenze tecnologiche sui processi di arricchimento dell’uranio. Inoltre ebbero grande impulso molteplici attività di ricerca sul nucleare, che alimentarono ulteriori sospetti da parte dei Paesi occidentali sulla natura non esclusivamente civile del programma iraniano. Negli anni 1992 e 1993 Teheran, per confutare ogni possibile accusa, invitò l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) a visitare i siti nucleari del Paese. Sebbene nel corso delle ispezioni i funzionari non avessero riscontrato attività divergenti da quanto dichiarato dalle autorità iraniane, emerse come dato ufficiale che i report erano parziali poiché Teheran non aveva autorizzato ispezioni complete. Qualche anno più tardi, nel 2012, la stessa Agenzia rendeva noti i risultati degli studi sullo status del programma nucleare, che evidenziavano il proseguimento delle attività di arricchimento dell’uranio. In un clima di crescente ostilità, gli Stati Uniti rifiutarono ogni forma di collaborazione con la Repubblica Islamica, fino al luglio del 2015 in cui venne firmato lo storico accordo sul nucleare iraniano. L’intesa fu raggiunta dopo lunghi e faticosi negoziati tra l’Iran e i paesi del cosiddetto “5+1”, cioè i membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina) più la Germania. In base all’accordo, le scorte di uranio arricchito non dovevano superare il limite di 300 kg e la percentuale di arricchimento non doveva oltrepassare il 3,67%, valore ritenuto idoneo al funzionamento delle centrali nucleari a scopo energetico. In aggiunta, il governo di Teheran si impegnava ad accettare ispezioni regolari in tutte le sue centrali. Come contropartita, i paesi firmatari del fronte occidentale avrebbero eliminato le sanzioni imposte negli anni precedenti in ragione della presunta deriva militare del piano nucleare iraniano. Una svolta storica, come la definirono vari analisti, che segnava un cambio di passo nelle relazioni tra Stati Uniti e Repubblica Islamica, caratterizzate da maggiore apertura al dialogo e alla trattativa in alternativa a minacce e sanzioni. Non mancarono tuttavia i detrattori, a cominciare da Donald Trump, che riteneva l’accordo firmato da Barack Obama e l’avvicinamento all’Iran una possibile causa di logoramento dei rapporti con Israele e Arabia Saudita, due alleati strategici dell’America contrari all’intesa. Un dissenso, quello americano, formalizzatosi nel 2018, quando a distanza di un anno dal suo primo insediamento alla Casa Bianca Trump annunciò il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nonostante Teheran ne avesse rispettato i termini e ordinò la reintroduzione delle sanzioni a suo tempo rimosse da Obama. Questa retromarcia americana fu causa di deterioramento dei rapporti con l’Iran, che riprese le attività di arricchimento dell’uranio in palese violazione dell’intesa precedentemente ratificata. Per giungere alla cronaca recente, stime aggiornate dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica rivelano che l’Iran ha processato circa 274 Kg di uranio arricchendolo al 60%, un valore non lontano dalla soglia del 90% necessaria per la costruzione della bomba atomica. Questa percentuale di arricchimento non può essere giustificata da scopi civili, come sostiene ufficialmente l’Iran, ma appare finalizzata a obiettivi militari non dichiarati. I prossimi negoziati USA-Iran si aprono dunque in un clima di diffidenza e ostilità tra le parti, come si evince dalle recenti dichiarazioni del presidente Trump di porre come condizione essenziale per un accordo la “verifica del programma di arricchimento”. Da parte iraniana, Teheran conferma la richiesta di rimozione delle sanzioni su diversi settori, con l’impegno americano, una volta rimosse, a non ripristinarle con altri pretesti. Al di là delle dichiarazioni bilaterali, una possibile intesa tra i due Paesi si colloca in un quadro geopolitico non privo di incertezze. La caduta del regime di Assad e il nuovo corso politico in Siria hanno costituito per l’Iran una sconfitta strategica, determinata in primis dall’interruzione del cosiddetto corridoio iraniano che consentiva all’Iran di raggiungere il Libano degli Hezbollah attraversando proprio il territorio siriano e l’Iraq. In tale contesto l’Iran, per arrivare via terra in Libano e fornire supporto logistico-militare al gruppo filoiraniano di Hezbollah dovrebbe percorrere rotte molto più a nord, esponendosi al monitoraggio israeliano e alle truppe americane stanziate in quei territori. In ultima analisi si è indebolito l’”Asse della resistenza” contro Israele, nemico storico degli Ayatollah, un fatto che l’Iran considera una questione di sicurezza nazionale, che potrebbe indurre la Repubblica Islamica a implementare l’arma nucleare come deterrente e ostacolare gli accordi. D’altro canto le sanzioni americane sono all’origine della grave crisi economica in Iran e tale situazione potrebbe spingere Teheran verso il negoziato. Sul fronte americano, nell’amministrazione Trump convivono due anime. La prima, massimalista, sostenuta dalla maggioranza dei repubblicani e dal premier israeliano Netanyahu vorrebbe lo smantellamento dell’intero programma nucleare iraniano e dei legami con tutte le milizie che compongono l’asse della resistenza. La seconda, più moderata, è aperta a un “verificabile accordo di pace nucleare”, che significa porre precisi limiti al piano nucleare di Teheran e mettere a punto un efficiente sistema di verifica. Le due opzioni hanno come denominatore comune l’imprevedibilità del “fattore Trump”, che rende aperto qualsiasi scenario.