di Riccardo Renzi –
La crisi esplosa nel giugno 2025 tra Stati Uniti e Iran ha portato il mondo a un passo dall’escalation militare, ma si è trasformata in un caso emblematico di “escalation controllata”: una coreografia diplomatica in cui nessuna delle parti ha realmente voluto la guerra. Mentre Washington bombardava siti nucleari già evacuati e Teheran rispondeva con missili su basi statunitensi anch’esse vuote, lo Stretto di Hormuz tornava al centro del gioco geopolitico globale. L’atto simbolico del parlamento iraniano di minacciarne la chiusura ha fatto impennare i mercati energetici e spinto l’Asia sull’orlo di un abisso strategico. In questo articolo analizziamo in chiave geopolitica e sistemica il senso di questa crisi, i rischi per la sicurezza energetica asiatica, il ruolo degli Stati Uniti e le contraddizioni profonde dell’ordine globale contemporaneo.
Gli eventi che hanno segnato la fine di giugno 2025 tra Washington e Teheran non corrispondono al modello classico di conflitto. Il bombardamento ordinato dagli Stati Uniti contro i siti nucleari iraniani, tra cui Fordow e Isfahan, ha avuto un impatto più simbolico che distruttivo. Secondo fonti diplomatiche, l’Iran era stato informalmente avvisato dell’imminente attacco tramite canali riservati, consentendogli di evacuare le strutture e mettere in salvo le componenti sensibili.
La risposta iraniana – un attacco missilistico a basi USA come Al Udeid (Qatar) o Ain al-Asad (Iraq), anch’esse già evacuate – rientra in un calcolo simmetrico: mostrare forza senza provocare una rappresaglia letale. Entrambe le parti hanno agito come se volessero un conflitto, pur facendo di tutto per evitarlo. È la dinamica dell’escalation gestita, dove il valore politico e comunicativo delle azioni supera quello militare.
Questo schema non è nuovo. Già nel 2020, dopo l’uccisione di Qassem Soleimani, l’Iran rispose colpendo Ain al-Asad senza causare vittime. Allo stesso modo, nel 2017 Trump bombardò la Siria dopo aver avvisato Mosca, per salvare la faccia senza aprire un nuovo fronte bellico. Il teatro sostituisce la guerra reale, ma i suoi effetti non sono meno destabilizzanti.
Il 22 giugno 2025, il parlamento iraniano (Majles) ha votato a favore della chiusura unilaterale dello Stretto di Hormuz, crocevia marittimo da cui passa circa il 20% del petrolio mondiale. Una decisione più politica che operativa: l’implementazione spetta al Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, controllato dalla Guida Suprema e dai Pasdaran. Tuttavia, il segnale è stato potente: in poche ore, il prezzo del Brent è salito del 4%, a dimostrazione che in geopolitica la percezione può contare quanto l’azione.
Lo Stretto di Hormuz è oggi la vera “linea del respiro” energetico dell’Asia. Cina, India, Giappone e Corea del Sud dipendono da queste rotte marittime per il 60–80% del loro fabbisogno petrolifero. Una sua chiusura – anche solo minacciata – si traduce in un’immediata crisi dei mercati e nelle sale operative di Tokyo, Nuova Delhi, Seul e Pechino. È una leva di deterrenza indiretta che Teheran impiega con crescente efficacia, senza bisogno di sparare un colpo.
Il paradosso strategico dell’Asia: vulnerabilità senza guerra.
Attraverso una matrice SWOT è possibile valutare l’esposizione strategica dei maggiori attori asiatici alla crisi dello Stretto:
L’Asia ha gli strumenti per difendersi, ma soffre di una vulnerabilità strutturale: l’eccessiva concentrazione delle sue fonti di approvvigionamento in un’area geopoliticamente instabile. La minaccia di Hormuz è anche un test sulla sua capacità di reagire non come un insieme di stati, ma come blocco strategico.
Gli Stati Uniti, nel frattempo, vivono una trasformazione strutturale: sono ormai largamente autosufficienti sul piano energetico. Dal boom dello shale oil all’espansione delle esportazioni di GNL, Washington non è più ostaggio delle crisi del Golfo. La Riserva Strategica di Petrolio (SPR), seppur parzialmente utilizzata nelle recenti crisi, resta un’arma di compensazione efficace.
In questo contesto, la crisi diventa per l’amministrazione Trump un’opportunità strategica. Ogni turbamento dei flussi mediorientali rafforza la centralità navale statunitense e aumenta la dipendenza degli alleati asiatici da Washington. Anche economicamente, i produttori americani di gas liquido guadagnano da un rialzo dei prezzi o da eventuali interruzioni sul fronte mediorientale.
La crisi di Hormuz è anche un colpo al cuore di una certa visione del mondo: quella che ha visto nella globalizzazione una garanzia di pace. Ma l’interdipendenza non impedisce la guerra: spesso la rende più ambigua, più indiretta, più manipolabile.
Come scrive Nesrine Malik sul Guardian, il mito del “capitalismo pacificatore” si scontra con la realtà brutale del potere. Il fatto che Iran, Cina e gli USA abbiano profondi interessi economici reciproci non ha impedito la minaccia di una guerra. Il commercio globale può essere colpito, manipolato, o usato come leva strategica. E la guerra, anche solo mimata, ha effetti reali.
Per evitare di restare ostaggio di ogni crisi nel Golfo, le potenze asiatiche devono muoversi lungo tre direttrici:
– Coordinamento delle riserve: attivare scorte strategiche in modo sincronizzato, condividere dati e ottimizzare logistica e rifornimenti in caso di crisi prolungate.
– Sicurezza marittima condivisa: rafforzare le missioni navali multinazionali e migliorare l’interoperabilità tra marine asiatiche e quelle occidentali.
– Diplomazia energetica multilivello: creare una piattaforma asiatica stabile per il dialogo con Iran, CCG e paesi produttori, anche con la mediazione di attori terzi come la Cina o la Turchia.
La crisi del Golfo del 2025 ci consegna un mondo dove il conflitto non si dichiara, si simula. In cui la minaccia di chiudere uno stretto largo 33 km può avere più effetto di mille carri armati. In cui nessuno vuole la guerra, ma tutti sono pronti a usarla come strumento di pressione. Lo Stretto di Hormuz è oggi più che un passaggio marittimo: è un barometro geopolitico, un termometro del disordine mondiale. Finché le economie dipenderanno da una geografia fragile e da attori disposti a usare la minaccia come leva, la sicurezza energetica resterà una chimera. E l’Asia, il cuore industriale del mondo, continuerà a camminare sull’orlo di un abisso che non ha scavato, ma da cui non può fuggire.