La guerra dei dazi

di Dario Rivolta * –

I nostrani neo-protezionisti esultano per le politiche tariffarie perseguite da Trump che dichiara di voler proteggere e favorire le produzioni interne. Naturalmente non possono dirsi contenti quando i dazi toccano anche le nostre esportazioni, ma plaudono alla guerra commerciale che gli USA trumpiani hanno intrapreso con la Cina.
Chi critica la globalizzazione dei mercati dimentica che l’Italia è un Paese che deve la maggior parte del proprio benessere ad una bilancia commerciale da sempre in attivo e che, quando si applicano dazi sulle merci di altri Stati, è quasi automatico che questi ultimi facciano la stessa cosa con le merci nostre. La conseguenza è che le nostre esportazioni diventano più costose e i nostri prodotti meno competitivi. Che il protezionismo indiscriminato convenga a noi è, quindi, perlomeno dubbio.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti è un errore di valutazione il voler considerare le azioni dell’attuale amministrazione americana contro la Cina come una pura guerra commerciale. Scartiamo pure l’ipotesi che a Washington siano irrazionali o pazzi perché le decisioni di questo tipo non sono assunte da una sola persona bensì sono il frutto di analisi condotte da tanti esperti. La possibilità che siano tutti preda di un’allucinazione collettiva è altamente improbabile. Formalmente le accuse americane alla Cina riguardano molti aspetti reali: il non rispetto della proprietà intellettuale, i sussidi pubblici alle società statali o giudicate strategiche, la manipolazione dei cambi, il trasferimento forzato di tecnologie a carico di chi vi investe puntando all’immenso mercato cinese, le difficoltà di accesso a quello stesso mercato per molti prodotti stranieri e lo spionaggio industriale.
Non sono cose da poco evidentemente, ma sono problemi ed accuse che potrebbero venire da qualunque Paese basato sul concetto di libero mercato e alcuni di questi argomenti potrebbero essere facilmente oggetto di ricorsi al WTO. Se gli ostacoli a un riequilibrio della bilancia commerciale americana fossero soltanto quelli, sarebbe razionale immaginare che tutti i Paesi occidentali e il Giappone fossero invitati da Washington a coalizzarsi, creando così una massa di pressione talmente forte da esercitare un potere negoziale pressoché imbattibile da chiunque, ivi compresa la Cina. Invece di mettersi sulla strada dell’ausilio volenteroso di tutti gli alleati vittime degli stessi problemi, Trump ha deciso di muoversi da solo in un rapporto strettamente bilaterale.
Ha perfino fatto di più aprendo contemporaneamente contenziosi tariffari con l’Europa, con il Giappone, con i Paesi NAFTA e perfino con la Corea del Sud, alleato indispensabile per i negoziati con la Corea del Nord. E’ evidente che, poiché gli Stati Uniti sono il più grande importatore mondiale e rappresentano da soli circa il 25% di tuto il PIL del globo, il trattare bilateralmente con ciascuno dei Paesi sopramenzionati rende possibile imporre loro tutte o gran parte delle proprie condizioni. Con la Cina le cose stanno però in modo diverso. Oramai le due economie hanno volumi molto vicini e il soft power cinese nel mondo, costruito negli ultimi venti anni, è riuscito a creare una massa di manovra economica talmente forte da poter giocare ad armi pari con il colosso statunitense.
Nel caso cinese esiste poi un ulteriore problema. Nonostante sin dal ‘91Pechino sia stata accettata nel WTO, la sua economia interna è ben lontana dall’essere realmente basata sul libero mercato. Il potere dello stato, e quindi del Partito Comunista Cinese, rimane onnipresente ed è in grado di orientare il comportamento delle maggiori aziende locali a proprio piacimento. E’ questa la leva più importante che, nonostante l’aumento della ricchezza media per abitante, consente al Partito di mantenere strettamente il potere su tutta la popolazione. Coloro che ancora immaginano che una qualche apertura alla liberalizzazione del mercato porti automaticamente con sé uno scivolamento verso istituzioni democratiche debbono ricredersi e la Cina è una dimostrazione di quanto quell’assunto sia fallace. Se Pechino dovesse accettare le condizioni di liberalizzare totalmente e veramente il mercato interno, di non avere due comportamenti diversi tra le proprie aziende e quelle straniere installate sul proprio territorio, se dovesse veramente rinunciare al controllo sui cambi, allora il potere dell’oligarchia dominante svanirebbe. E’ esattamente quello che i gerarchi cinesi non possono permettersi e non faranno mai.
Tutto ciò si presume sia ben evidente agli alti politici americani che sanno, quindi, che le richieste avanzate non potranno essere realmente accolte. L’annuncio che il 15 gennaio si chiuderà “una prima fase dell’accordo” è, appunto, un annuncio. Qualcosa si firmerà, ma saranno briciole e non cose di sostanza. Non a caso, si dice anche che occorrerà un secondo incontro per finalizzare la trattativa. Il tutto suona da parte americana come una necessità di immagine per il Presidente e per i cinesi, un modo in più per guadagnare tempo.
Cos’è allora questa guerra dei dazi?
E’ una guerra che cerca di utilizzare i commerci anziché (o prima…) delle armi. Il vero obiettivo non è una questione di bilancia commerciale, ma di supremazia tecnologica e ruolo egemonico nel mondo. A Washington hanno capito che il loro unico e vero competitor per il controllo del globo è il Paese del Dragone e la lotta intrapresa ha come scopo finale il cercare di “azzoppare” la crescita cinese. In questa querelle commerciale qualche accordo di facciata sarà anche possibile, ma la partita che si sta giocando è il potere e nessun temporaneo accordo sui dazi vi porrà fine.
Qualcosa di simile accadde con il Giappone in ascesa negli anni precedenti la seconda guerra mondiale ma allora finì, appunto, con una guerra.
Oggi sembra chiaro che, almeno per ora, né la Cina né gli Stati Uniti vogliano arrivare fino a quel punto e la strada scelta per confrontarsi resta quella commerciale. Se questa analisi è corretta, occorre tuttavia aggiungere che Trump sta commettendo almeno due gravi errori.
Il primo è che attaccare contemporaneamente anche i propri alleati indebolisce la sua forza e li mette nella necessità di trovare altri sbocchi o altre consonanze, magari proprio con la Cina. Anche la guerra tecnologica basata sul tentativo di bloccare del tutto il trasferimento di tecnologie e rompere il legame già in essere tra le aziende americane e quelle cinesi potrebbe essere inficiata proprio dai paesi alleati che, penalizzati per altri prodotti sul mercato americano, potrebbero sostituirvisi con le proprie aziende, tecnologicamente altrettanto sviluppate (o quasi) a quelle a stelle e strisce.
Il secondo errore è, probabilmente, ancora peggiore. Prima di Trump, Obama, altrettanto conscio del pericolo cinese, aveva messo in piedi un accordo, il Trans Pacific Partnership, che creava un libero mercato tra tutti i maggiori Paesi che si affacciano sull’oceano Pacifico escludendo proprio la Cina. Quel trattato implicava, di fatto, una integrazione tra di loro che avrebbe isolato Pechino, sia sotto il punto di vista industrial-commerciale sia politico. Il Tycoon, forse troppo precipitosamente ma fedele al suo essere un “tariff man” (sua autodefinizione), lo ha disdetto trovandosi, anche in questo caso, da solo contro un secondo gigante. I Paesi oceanici che avevano già sottoscritto quell’intesa (Australia, Brunei, Canada, Chile, Japan, Malaysia, Mexico, New Zealand, Peru, Singapore, Vietnam) hanno dato vita ad un “Comprehensive and Progressive Agreement for Trans Pacific Partnership” (CPTPP-maggio 2017), cui però la Cina si è già rivolta per cercare di stabilire qualche forma di collaborazione. E’ molto probabile che, man mano andasse aggravandosi lo scontro con gli USA, Pechino possa, tatticamente, disporsi a importanti concessioni verso i Paesi membri di questo nuovo accordo. Potrebbe anche finire che un futuro “isolamento” tocchi più gli USA (almeno su alcuni aspetti) che la Cina.
La sola cosa che possiamo aggiungere in questo scenario di scontro tra titani è che, una volta di più, l’Europa risulta insignificante ed assente. Spiace dirlo, ma i soliti tedeschi e pure i francesi continuano nei loro pellegrinaggi verso Pechino ognuno per conto proprio, badando più a dei ritorni immediati per le proprie aziende che agli equilibri politici ed economici mondiali del futuro.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.