La guerra del petrolio di Russia e Arabia Saudita tiene basso il costo del barile

di Dario Rivolta *

È dal 2009 che non si assisteva a una caduta così drastica nei prezzi del greggio. Pochi giorni fa il Brent, il petrolio più pregiato, è arrivato a perdere il 30% toccando il minimo di 31 dollari al barile.
Le ragioni di un prezzo che scende così tanto in poco tempo sono più di una. Innanzitutto la domanda è in calo a causa della tendenza mondiale a ridurre l’uso dell’oro nero e soprattutto per la crisi economica che ha cominciato a toccare i Paesi di tutto il mondo, ancora prima dell’apparizione del Covid 19. L’altra ragione è che gli equilibri tra i paesi produttori sono cambiati notevolmente da quando, grazio allo shale oil, gli Stati Uniti hanno smesso di essere il principale Paese importatore e sono addirittura diventati esportatori di petrolio e di gas. Il maggiore importatore era diventato da qualche tempo la Cina, ma i problemi economici e sanitari interni e la sovrapproduzione dovuta al calo delle esportazioni hanno ridotto anche la sua domanda.
È importante sapere che il greggio non è uguale in tutto il mondo, né come composizione chimica né come costo di estrazione. Che il Brent sia tra i migliori e più adatti a ridurre i costi di raffinazione lo si sa e per fare un esempio di petrolio “sporco” basta pensare al Venezuela. Per ciò che riguarda l’estrazione, quello meno costoso è quello medio orientale poiché i giacimenti si trovano relativamente vicini alla superficie. Quello più costoso in assoluto è quello ottenuto con il metodo fracking, cioè lo shale, estratto dalle sabbie o dalle rocce. L’arrivo di quest’ultimo sul mercato ha inondato di oro nero l’intero mondo nonostante gli alti costi ambientali e di consumo di acqua necessari. Le Società che ricorrono a questo metodo, soprattutto negli Stati Uniti, sono spesso di piccole dimensioni e quindi estremamente bisognose di crediti. Se il prezzo di vendita è attorno o superiore ai 60 dollari al barile, tutte riescono a sopravvivere e fare profitti. Al di sotto di quel livello solo quelle non indebitate e più tecnologicamente avanzate riescono a sopravvivere. Quando la quotazione scende sotto i 40 dollari al barile i problemi cominciano a farsi sentire anche per loro.
Nemmeno le sanzioni contro l’Iran volute dagli USA o la riduzione della produzione libica dovuta alla guerra civile sono bastati a ridurre l’offerta mondiale di petrolio che continua a essere superiore alla domanda.

Chi più ha sofferto dell’apparizione sul mercato dello shale oil è l’Arabia Saudita. Da un lato si è vista ridurre le proprie quote di mercato, dall’altro ha perso sia l’importanza strategica che rivestiva per gli Stati Uniti sia il ruolo dominante che per lunghi decenni aveva mantenuto su questa fonte energetica.
L’erede al trono di Riad, Mohamed Bin Salman, ha lanciato pochi anni orsono un grande progetto di riconversione dell’economia del suo Paese che ha chiamato Vision 2030. L’intenzione è quella di riconvertire il bilancio dello Stato rendendolo meno dipendente dall’esportazione degli idrocarburi, che tuttora costituiscono quasi l’80% del prodotto nazionale lordo saudita. Il problema è che per puntare a questo obiettivo sono necessari enormi investimenti industriali e infrastrutturali che richiedono entrate ricche e stabili. Bin Salman è conscio che per riuscire nella sua impresa ha bisogno anche che si affrontino e risolvano due problemi legati tra loro: il costante depauperamento delle riserve di acqua fossile, indispensabile per l’agricoltura e per la vita quotidiana, e la riduzione del crescente tasso di disoccupazione dovuto all’enorme incremento demografico degli ultimi anni. Il bilancio statale predisposto per il progetto Vision 2030 ha calcolato gli introiti necessari basandosi su una previsione del prezzo di vendita del petrolio a 80 dollari al barile. Un valore inferiore metterebbe a rischio la riuscita di tutto il piano.

Mohammed bin Salman.

È pur vero che i sauditi hanno un certo numero di riserve in valuta estera e grazie ad esse possono far fronte a un certo periodo di valori inferiori a quel livello, ma è altrettanto noto che quelle riserve non sono infinite e che possono sopperire solo per un contenuto periodo di tempo.
Per opporsi a questa caduta del prezzo del barile, i sauditi hanno convocato una riunione dei Paesi membri dell’OPEC invitando anche alcuni Paesi produttori ma non membri tra cui la Russia, con l’intento di concordare una diminuzione generale dei livelli di produzione al fine di fare alzare il prezzo di vendita sopra i 50 e 60 dollari che si erano affermati negli ultimi mesi. L’ostacolo subito apparso sul tavolo è stato quello di decidere chi dovesse ridurre e di quanto le proprie estrazioni.
Ogni Paese naturalmente valuta non solo il proprio bilancio ma anche le quote di mercato già acquisite e la non intesa su questo ultimo punto ha portato al fallimento dell’iniziativa. I sauditi, avendo già ridotto nel recente passato la propria produzione e a causa degli attentati agli oleodotti subiti mesi orsono, non sono più i maggiori produttori al mondo e di conseguenza hanno perso una buona parte della propria posizione dominante. Hanno quindi preteso che fosse la Russia ad affrontare questa volta il sacrificio maggiore. Anche i russi però stanno affrontando una crisi economica interna e si sono detti non disponibili ad altri sacrifici oltre quelli sopportati in precedenza. Hanno chiesto invece che se ne sobbarcassero i sauditi e quegli altri Paesi che non avevano ancora ridotto la propria produzione.

Il dissidio tra russi e sauditi si è trasformato in un vero e proprio braccio di ferro nel quale entrambi stanno cercando di ottenere che sia l’altro a cedere. Anziché accogliere la richiesta russa, i sauditi hanno agito di ripicca e, invece di ridurla, hanno minacciato di aumentare la propria produzione facendo crollare il prezzo ulteriormente. Calcolavano che, avendo i russi un costo di produzione più alto del loro, sarebbero stati costretti a cedere.
È questa tuttavia una scommessa azzardata perché il pareggio del bilancio russo è raggiunto, secondo i calcoli di Mosca, con un prezzo del barile attorno ai 42 dollari. In altre parole il Cremlino può rispettare i propri impegni interni più facilmente di quanto possano farlo i sauditi. Ogni dollaro incassato sopra i 42 finisce in un Fondo che la Russia mette da parte per sopperire alle esigenze dei periodi più difficili. Ogni dollaro in meno viene compensato proprio da quegli accantonamenti. Occorre aggiungere che Mosca ha anche riserve di valuta estera e di oro molto superiori a quelle di Riad e quindi, almeno sulla carta, sembra essere definitivamente avvantaggiata in questa guerra a due. Rincalzando le minacce saudite il governo moscovita ha pubblicamente affermato che se Riad insistesse in questo ricatto, anche la Russia potrebbe aumentare la propria produzione di altri 300mila barili al giorno.
È da questa guerra commerciale tra i due grandi produttori che nasce il crollo attuale del prezzo. Se le economie dei Paesi tradizionali consumatori fossero state in buona salute non avremmo potuto che goderne. Al contrario, essendo esse per lo più sofferenti, anche i benefici di questo calo del costo dell’energia diventa quasi ininfluente.
Magari a breve non si può escludere che uno dei due si dichiari sconfitto e accetti le condizioni dell’altro oppure che giungano a un compromesso. Per il momento i prezzi restano bassi e chi ne soffre non sono soltanto i bilanci dei Paesi produttori ma anche, in tutto il mondo, tutte quelle aziende quotate in borsa che basano la propria attività principalmente sul prezzo di gas e petrolio.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali..